My name is Joe
Bread and Roses
11 settembre 2001
Sweet Sixteen
Un bacio appassionato
Il vento che accarezza l'erba
Il mio amico Eric
Il
solito caro vecchio Ken Loach
con il suo realismo di taglio sociale è tornato: Sweet Sixteen è l’ennesima
storia di emarginazione diretta dal grande regista inglese, classe
1936, un film nudo e crudo, raccontato in gran parte con un taglio
impietosamente descrittivo, quasi documentaristico, volto a fotografare uno
scorcio di ingiustizia proletaria più che a dimostrare una tesi o suggerire
facili conclusioni moralistiche. Cominciamo dal “dolce sedicenne” del titolo,
un vero ossimoro a confronto con la durezza della trama: l’adolescente
protagonista si chiama Liam ed ha un amore viscerale per la madre, tossica di
lunga data, inguaribilmente attratta dagli uomini sbagliati, autodistruttiva
per background sociale ed attualmente reclusa in un istituto penale per
spaccio di droga (si è addossata la colpa per salvare il suo convivente, Stan)
da cui uscirà il giorno prima del sedicesimo
compleanno del figlio. All’uscita dall’istituto Liam vuole accogliere la
madre donandole i presupposti di un’esistenza fuori dal tunnel della droga,
magari con un piccolo prefabbricato con vista sul mare alla periferia di
Greenock, cittadina scozzese vicina a Glasgow, in cui poter vivere una vita
dignitosa e congiungersi con la sorella diciassettenne Chantel, ragazza-madre
di un bimbo piccolo. Liam sogna di riunione la sua famiglia disgregata sotto
una parvenza di sicurezza e di decoro umano, lontano dal nonno violento e del
patrigno spacciatore, un’aspirazione perfettamente in linea col suo carattere
generoso ed improntato a buoni principi: la via scelta per realizzarla è però
disperatamente omeopatica, dato che il crimine da cui tenta di fuggire (lo
spaccio) è l’unico modo che conosce per mettere insieme i soldi che gli
servono. Rubata una partita di droga al patrigno, che
l’ha cacciato di casa, insieme all’amico fraterno Flipper il buon Liam si mette
a smerciare eroina per le strade, incurante dei pericoli cui si espone e
finendo per cacciarsi, sulle ali della sua entusiastica intraprendenza, in giri
troppo più grandi di lui. Quando il sogno (sebbene pericolosamente in bilico)
sembra alla portata, nonostante l’ingente tributo di dolore ed affetti
richiesto, la madre troverà modo di sprecare la sua occasione, Liam il suo
futuro. Nella sostanziale uniformità del cinema di Loach spesso è la capacità
degli attori di incarnare il dramma a costituire il fulcro funzionale della
storia: in Sweet Sixteen
impressionano le interpretazioni offerte dagli attori adolescenti
(rigorosamente non professionisti), così veri anche dal punto di vista meramente
fisico, e nel cast spicca in particolare l’intensa prova del giovane
protagonista Martin Compston. Loach non ha
perso l’occasione per colpire allo stomaco il suo pubblico con una storia, vera
e credibile, di denuncia e disperazione proletaria. Lo stile asciutto e
realistico del regista inglese risulta incisivo come sempre, supportato
dall’efficace sceneggiatura del fido Paul Laverty, premiata a Cannes 2002.
Sweet Sixteen, regia di Ken Loach, con Martin Compston, Michelle Coulter, Annmarie Fulton, William Ruane; drammatico; Gran Bretagna; 2002; C.; dur. 1h e 36'
Voto
7½
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