Nel dopo partita, perché di match
ogni volta si tratta quando sul palco c’è Antonio Rezza, lo stesso autore si chiedeva perché nessun critico teatrale aveva avuto la forza, il coraggio, di scrivere una recensione sul suo spettacolo utilizzando soltanto numeri. Non
sarà accontentato neanche stavolta. Dire, ancora, provocatorio, eccessivo, debordante,
scioccante, blasfemo, non ha più alcun senso se non quello di perpetrare una
morale demodé e retrò, narcisista, falsa, che, sottolineando le diversità, rafforza la maggioranza del gregge. Rezza un po’ ti salva, un po’
ti affossa, facendoti capire fin dove siamo arrivati, giunti, caduti, immersi nelle convenzioni, legati dal non dire, dal non aver
fatto. Le piece di Rezza sono più che altro
flash mob, riunioni carbonare. L’ultima opera d’arte in movimento, piece teatrale limita le possibilità spaziali e concettuali
della ditta Rezza - Flavia
Mastrella, riesce ancora una volta a scardinare, ad entrare negli
interstizi del bene, del buono, del giusto, o almeno di quello che è visto,
accertato ed accettato come tale. Contro queste categorie, non umane ma soltanto ipocrite, razionali e fredde, si scaglia a torso nudo in un look da motociclista, un po’ pompiere, un po’bay watcher, un tantino supereroe. Rezza ci dice: la maggioranza non ha ragione, la maggioranza
è fatta di minoranze pigre che si sono adagiate nell’ignoranza e non hanno
fatto valere le loro differenze d’opinioni acquietandosi su certezze
preconfezionate. Ci sono padri separati frustrati, demotivati e demoralizzati,
ci sono i precari, costretti a condizioni di lavoro insostenibili e inaccettabili, inappetenti verso la vita senza ottimismo
nei confronti dei figli che richiederebbero allegria e non allergia, ci sono i
preti pedofili, c’è la riforma della Sanità basata soltanto sul cambiare il
suono della sirena, ci scappa la bestemmia che, ironizza, è “l’unico neo di uno
spettacolo che strizza l’occhio ai sacramenti”, ci sono le medicine e l’abuso
degli psicofarmaci per la ricerca della felicità, c’è la solitudine talmente
spessa da tagliare a fette, c’è un velo da sposa usato come cappio, ci sono i
candidati alle elezioni che urlano e sbraitano in maniera animalesca, c’è un
grandissimo gioco dell’oca interattivo dove si salta da un numero immaginario
all’altro balzando su una gamba sola come a campana che è un quadro preciso dei
rapporti di coppia nella nostra società, c’è una Madonna che fatica, fino a
cedere, a tenere in braccio Gesù, fino alla rissa tra madre e figlio. E’ un
Cristo umano e sbagliato, ferito e controverso, che si fa
delle domande, che non accetta passivamente la propria condanna. Altalene e
attrezzi ginnici, maniglie e manubri, insieme agli immancabili drappi e teli
forati da indossare sono il fondale dove si muove la faccia da pesce degli
abissi del padre di “Fotofinish”, da animale preistorico, con espressioni alla Totò ed
intuizioni alla Troisi. Ci sono affreschi, nella continua e feroce reiterazione e moltiplicazione concettuale
che crea un mantra da dimensione collegiale, dove la parola fa attrito con la visione, dove il gesto diventa ossimorico rispetto all’idea che Rezza vuol far passare, ed è in questo cortocircuito, allo stesso momento percorso intuitivo, affascinante e faticoso, che nasce,
cresce e si esplora la poesia. Certo aggressiva e impertinente, a volte spaventosa e ingombrante, densa che non scorre facile sulla pelle. Rimangono
incollate le parole di difficile deglutizione. Rezza ha un rapporto continuo
con il proprio corpo. Ed alla fine ringrazia come Kakà dopo una rete, Usain Bolt dopo il record sui cento metri, un ballerino di
flamenco, un torero. L’esperienza collettiva è finita. Ma non c’è nessun “E
vissero felici e contenti: non si augura a nessuno una fine così”.
Voto
7
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