All’apice
dell’era del vinile, esattamente trent’anni fa, usciva un album destinato a
restare negli annali del rock contemporaneo. Il relativo titolo, che
affondava le proprie radici nel fertile terreno del mito, era The dark
side of the moon, sulla cui copertina a sfondo completamente nero
campeggiava un prisma in cui entra un raggio di luce che si scompone nei sette
colori dell’arcobaleno. Gli autori
erano David Gilmour (voce e chitarre), Nick Mason (percussioni), Rick Wright
(voce e tastiere) e Roger Waters (voce e basso), i quattro Pink Floyd all’apice della creatività.
Teatro dell’incisione delle nove tracce del disco niente meno che gli studi di
Abbey Road, all’epoca decisamente all’avanguardia, sotto la supervisione di un
tecnico del suono chiamato Alan Parsons. The dark side of
the moon arrivò al numero uno nelle classifiche americane
(atavicamente le più difficili da sfondare per i gruppi inglesi) e britanniche,
stabilendo un record di permanenza in classifica di quattordici anni
consecutivi e vendendo qualcosa come trenta milioni di copie circa. Si trattava
di uno dei primi esempi di concept album – per quanto i Pink Floyd in seguito abbiano fatto del
concept una ragione d’espressione artistica – disperso in una babele di
suoni che contengono (o introducono) le complessive nove tracce. Per
esemplificare basti pensare al delicatissimo crescendo cardiaco che apre
l’album cui si aggregano pale di elicotteri e tintinnii vari per svilupparsi
nell’eterea e malinconica ballata Breathe in the air: la coda del brano
va successivamente a generare l’ipnotico ritmo della strumentale On the run,
che nella traccia seguente, previo battiti di varie pendole, finisce per
svilupparsi nel preludio del rock acido di Time, continuamente
aperta a sterzate in territorio balladeer. Senza soluzione di continuità
l’album
continua con il malinconico piano di The great gig in the sky, tutta
giocata su psichedelici vocalizzi di marca rigorosamente soul di Clare
Torry. Il fulcro di The dark side of the moon, il biglietto da
visita del disco, i sessanta secondi scolpiti nell’immaginario collettivo, è la
contagiosa Money, aperta dal tintinnio dei registratori di cassa,
sviluppata in un insostenibile crescendo rock – davvero imperdibile la
parte centrale tutta giocata sul fronte strumentale –. A ruota la pastorale
contemporanea della monumentale Us and them. Dopo l’interludio di Any
colour you like, i Pink Floyd
omaggiano l’ex compagno lunatico del gruppo,
lo scomparso Syd Barrett, in Brain damage, prima di chiudere il discorso
in chiave epica con la brevissima Eclipse. Un disco entrato nel mito di
tutte le generazioni che si sono succedute da quel fatidico 1973, la cui
copertina non ha mai mancato di campeggiare nei pressi degli impianti
stereofonici ad altà fedeltà che cominciarono a diffondersi in Italia proprio
durante gli anni Settanta. The dark side of the moon si è
confermato album di culto anche nel terzo millennio, riaffacciandosi ai piani
alti delle charts di mezzo mondo nella ricorrenza del trentennale.
Pink Floyd, The dark side of the moon [Emi 1973]
Voto
9
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