Pippo Delbono: Questo buio feroce, 2008
Pippo Delbono: Urlo, 2007
Pippo Delbono: Racconti di giugno, 2006
Pippo Delbono: Guerra, 2003
“A giugno sono nato io, ma questo non è importante”.
Comincia così il monologo astioso, tirato, esterrefatto di Pippo Delbono nel
suo nuovo “Racconti
di giugno”presentato a Castiglioncello per Armunia,
che sarà proposto dal 17 al 19 luglio 2006 al Festival d'Avignon.
A giugno è morto
il padre, sempre a giugno anche l’amico che lo ha accompagnato, come dice lui
“in una storia alla Brokeback mountain”,
per dieci anni di vita-percorso insieme. Chi è Pippo Delbono?
Secondo la sua stessa definizione “omosessuale, sieropositivo e buddista” ma
“non ditelo a mia madre”. Forse è più facile parlare agli sconosciuti, ogni
sera diversi, ogni sera lo stesso muro del pianto opaco, indefinibile,
catastrofico, un muro di gomma che prende e macina, che ha bisogno del dolore e
della paura altrui per confortarsi dalle miserie quotidiane, accendere la tv,
parlare del Milan in Coppa Campioni. Ma la vita bussa sempre più forte e fa
rumore, spezza candele e vetri. La vita fa venire il mal di pancia e tutti i
pugni vanno presi tutti, bisogna essere centrati dal treno in corsa per
riuscire a capire. Niente è un caso. Il dolore è un percorso, una rinascita, un
cadere negli abissi pronto per darsi una nuova spinta, camminare nel baratro
dei sentimenti per nuovamente tornare ad essere. In questo “Racconti di giugno”,
un collage di sensazioni e patchwork di esperienze varie di un corollario
infinito di attimi potenti ed invasivi, deliranti ed assoluti, l’attore mette
in gioco se stesso, come sempre del resto, e lo fa forse nell’unica maniera
conosciuta. Spogliandosi dei filtri, delle barriere, spalancando lo sterno al
vento, con gli organi in bella vista e la carne viva. Anche se il palco è
sempre lì a rammentarci le differenze e le divisioni, le distanze e le
lontananze tra chi parla e chi sotto ascolta (anche se la rinnovata sede del
Castello Pasquini ribalta il concetto del teatro classico con il palco ad
altezza terra e lo spettatore in alto come un antico anfiteatro, o ancora molto
simile allo Studio di Scandicci)
sempre un po’ più passivo che partecipe quando il tema diviene proporzionale
tra l’autobiografismo e la drammaticità degli eventi concatenati. Si soffre e
ce ne distanziamo, si capisce e ci si commuove, tra patetismo e voglia di fuga,
tra buonismo, senza benpensantismo, e normalità, logorio e gioia della sana
routine che ci va stretta, tra la pietà e la compassione, veri nemici di un
teatro dell’anima, di un teatro della vita come quello del regista genovese.
“Facciamo teatro per distruggere dei muri, altrimenti non avrebbe senso” diceva
Kantor e Pippo l’ha seguito alla lettera facendo del proprio disagio la sua
personale piece-rivincita- rivoluzione da inscenare quotidianamente, salvandosi
dal delirio, dall’annientamento. La famiglia ultra cattolica, i preti pedofili,
l’Lsd e l’eroina, l’amore-odio- distruzione con l’Amico, la scuola di teatro
che lo ha salvato da morte certa, e l’Odin Teater in
Danimarca, la malattia conclamata fino a Bobò. Qui c’è tutto il mondo del padre
di “ Gente di
plastica” o “L’urlo”. Nell’atto di soffiare
tutta la sua sofferenza in un message in a bottle, tragico ed altissimo, da
pirata di vita sta tutta la drammaticità terribile, irripetibile e solenne
dell’esistenza. Pippo Del Bono ha vissuto? Ha vissuto. Ma non perché ha fatto
molte esperienze, né perché queste siano state devastanti, ma perché le ha
compiute immergendosi fino al midollo, lasciandosi andare, senza pensare alle
conseguenze, come se il domani non dovesse mai arrivare. Ma questo è teatro? Ma
questo è “il teatro”? O non è teatro tutto il resto? Il teatro è morto e siamo
ritornati alla narrazione del saggio nella caverna delle emozioni, il passaggio
del testimone della memoria, del ricordo, del passato individuale che diviene
esperienza collettiva, aspirazione- respiro ed espiazione del gruppo attraverso
il totem, il sacro fuoco della conoscenza. E’ giusto mettersi di fronte a
sconosciuti ed aprire il cassetto dei dolori? E’ giusto ferirsi ogni volta
masochisticamente per lo spettacolo? Non si rischia così di banalizzare le
tragedie personali alterandole ed esorcizzandole in una bolla di sapone che nel
corso delle repliche diviene pura contaminazione di linguaggio e parola ed applausi
finali che molto sanno ed hanno di senso di colpa? Sono giusti, e reali, gli
applausi finali? Un silenzio sarebbe il miglior ascolto.
Voto
8
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