Eugenio Barba, fondatore e regista dell’Odin Teatret, risponde alle domande
di Claudia Brunetto di Scanner. Siamo
a Holstebro, Danimarca, 14 settembre 2011, nei giorni delle prove dello spettacolo
The chronic life, La vita cronica, che debutta in Italia, al Teatro
Fabbricone di Prato, dal 4 all’8 ottobre 2011. Il nuovo spettacolo di Barba è dedicato ad Anna
Politkovskaya e Natalia Estemirova, scrittrici russe in difesa dei diritti
umani, assassinate da sicari nel 2006 e 2009 per la loro opposizione al conflitto ceceno.
La vita cronica si svolge contemporaneamente in Danimarca e in altri paesi d'Europa nel 2031, dopo la terza guerra civile. Individui e
gruppi con retroterra diversi si ritrovano insieme e si scontrano pressati da
guerre, disoccupazione, emigrazione.
Un ragazzo approda dall'America Latina in cerca di suo padre scomparso. "Smettila di cercare tuo padre", gli sussurrano mentre lo
accompagnano di porta in porta.
Non è l'innocenza né la conoscenza a salvare il ragazzo. Sarà l'ignoranza a fargli scoprire la sua porta. Tra lo sconcerto di noi tutti
che non crediamo all'incredibile: che una vittima valga, da sola, più di ogni
valore. Più di Dio.
Eugenio Barba, nello
spettacolo si fa riferimento a una sorta di guerra civile proiettata fra venti
anni, eppure il dolore, la speranza, i personaggi che si muovono sulla scena
sembrano estremamente contemporanei. C’è un riferimento voluto a quello che
accade nel mondo oggi?
Eugenio Barba
Non c’è un riferimento voluto all’attualità, se lo
spettatore associa una serie di immagini, situazioni, atmosfere al
contemporaneo, non è una cosa voluta. La mia idea era di lavorare con qualcosa
che ognuno di noi non può conoscere, come il futuro, sappiamo che prevedere il
futuro è da stupidi. Il compito che mi ero dato, appunto, era quello di provare
a lavorare da stupidi, non da persone intelligenti che pensano di conoscere o
conoscono già troppo.
C.B.
Qual è stata allora
la prima immagine, la prima idea che hai avuto dello spettacolo?
E.B. Il punto di
partenza dello spettacolo è stato tutt’altro. Mi sono chiesto se era ancora
possibile per i miei compagni e per me, dopo quasi 50 anni dalla fondazione
dell’Odin Teatret, fare ancora uno spettacolo insieme. Non avevamo nessun tema
in realtà. Siamo entrati in sala, abbiamo cominciato con delle improvvisazioni
e abbiamo cercato delle musiche. In un certo senso abbiamo provato a divertirci
insieme. Dopo un mese di lavoro in questo modo, abbiamo capito che era ancora
divertente costruire insieme qualcosa, che aveva ancora un senso per noi. C’era
ancora il piacere di lavorare insieme, nonostante le difficoltà, i conflitti,
le impaziente, le incertezze di ognuno di noi nel confronto con gli altri.
Allora ci siamo dati degli appuntamenti regolari per i mesi successivi e
abbiamo continuato a lavorare senza sapere fino alla fine verso quale
spettacolo stavamo andando. Sapevamo solo che ci stavamo addentrando in una
zona che non potevamo dominare intellettualmente, per questo abbiamo proiettato
lo spettacolo nel futuro ed è nata “La vita cronica”. Il processo di lavoro è
durato quattro anni in cui tutto quello che facevamo doveva avere un senso
anche per lo spettatore. Questa è la mia preoccupazione, la mia ambizione più
grande.
C.B.
Nello spettacolo
lavori con gli attori storici dell’Odin, ma per la prima volta anche con Elena
Floris e Sofia Monsalve, come hai affrontato il percorso con loro?
E.B.
Elena Floris è una musicista così competente che non ha
bisogno di essere guidata, sa anche intuitivamente come intervenire e
partecipare al lavoro di costruzione dello spettacolo, dando anche alle scene
più soluzioni artistiche e musicali. Sofia, invece, ha affrontato un lungo
processo di iniziazione, come tutte le persone che lavorano per la prima volta
in uno spettacolo dell’Odin Teatret. In questo processo di iniziazione è
decisiva la motivazione personale dell’attrice. Se la giovane attrice accetta
di andare fino all’estremo, all’eccesso. Se ha la speranza di scoprire qualcosa
di cui sente la fame, la sete, la necessità, allora il processo si conclude in
maniera positiva sia per la giovane attrice che per il gruppo con cui lei
lavora.
C.B.
Questo è anche il
primo spettacolo in cui non c’è Torgeir Wethal, scomparso nel 2010. Lui aveva
cominciato a lavorare alla “Vita cronaca”, come affronti questo vuoto nel
lavoro per lo spettacolo?
E.B.
All’inizio del lavoro per lo spettacolo, come ho detto, c’è
stata proprio la scoperta di essere ancora capaci di trovare dei punti di
partenza, degli stimoli, delle sorgenti per potere improvvisare. In quel
periodo che è durato quasi due anni, non c’erano ancora dei veri e propri
personaggi, erano appena abbozzati. Ed era proprio il periodo in cui Torgeir si
è ammalato. Come accade per gli esseri umani, lo spettacolo quando lui ha
lavorato con noi, era ancora in embrione, quindi il vuoto che ha lasciato lo
sentiamo, ma a un livello completamente diverso. Come un fantasma che
appartiene alle nostre biografie personali e professionali, ma nello spettacolo
no. Dopo la sua scomparsa, lo spettacolo è entrato nella fase in cui si sono
sviluppati i personaggi. Sono apparse le scene e nel giro di altri due anni ha
acquistato quella densità di informazioni che oggi danno allo spettatore la
sensazione che ci sia qualcosa di contemporaneo, anche se questo non era
l’intento iniziale.
C.B.
Quattro anni di
lavorazione per “La vita cronica” e alla fine settimane intense di prove in cui
lo spettacolo si modifica giorno dopo giorno. Quando ti accorgi che è pronto
per il pubblico?
E.B.
Passano mesi in cui si costruisce lo scheletro, i muscoli, i
tendini, il sistema nervoso, i polmoni dello spettacolo. Poi devi creare
l’epidermide dell’organismo-spettacolo, la sua pelle. Devi decidere se deve
avere il volto di Marilyn Monroe o se una parte di questo volto deve
assomigliare a Quasimodo. Sono minuscoli cambiamenti che nelle ultime due, tre
settimane di prove, trasformano davvero lo spettacolo. Alla fine arriva un
momento in cui so che quella deve essere la fisionomia dello spettacolo, di
quell’organismo. È il momento in cui lo spettacolo per me è pronto.
C.B.
Nella scena finale
dello spettacolo si avverte come un sollievo dal dolore provato, una leggerezza
regalata attraverso la risata di due giovani. C’è una sorta di messaggio
positivo in questa scelta?
E.B.
Noi tutti abbiamo vissuto dei momenti tragici, di grande
sconforto, ci siamo ritrovati davanti a un baratro nero. Eppure anche in quei
momenti dal tragico siamo arrivati al riso, all’allegria, nonostante il dolore
e la disperazione. È come se un aspetto fosse complementare all’altro, è questo
il mistero straordinario e affascinante della vita. Puoi essere estremamente
felice, ma allo stesso tempo puoi sentire qualcosa dentro di te che ti
affligge, come una specie di nostalgia, di mancanza di qualcosa rispetto allo
stato di felicità che stai vivendo. Nei momenti di più grande sconforto puoi
scoppiare a ridere, perché magari vedi un bambino che scivola per la strada
inseguendo una gallina.
C.B.
A un certo punto
dello spettacolo fa ingresso la bandiera della Danimarca, issata dagli attori
in un inno di festa, come una grande vela. Ma allo stesso tempo sembra un
disperato tentativo di appartenere a una terra, di ricercare la propria
identità…
E.B.
La presenza della propria bandiera nazionale in uno
spettacolo è sempre un eccesso, perché lo spettatore non sa mai se sta per
essere utilizzata per profanarla o per sottolinearne il valore. Per molto
tempo, la scena della bandiera nello spettacolo, dà questa incertezza allo
spettatore. Ma poi parte un canto potente e vitale, il più famoso in Danimarca,
quello che si canta quando si vince una partita di football, un momento che
tutti qui hanno vissuto almeno una volta allo stadio. Questo è per i danesi un
momento di grande identificazione, in quel momento non è più teatro, non è più
qualcosa di astratto, ma un momento che ciascuno può associare alla biografia
personale, alla storia contemporanea. Poi la bandiera si trasforma in una sorta
di vela, in una zattera che porta da qualche altra parte.
C.B.
Cosa rimarrà
dell’Odin, di una biografia teatrale che ha attraversato più di mezzo secolo?
Pensi mai al futuro, anche se è una cosa stupida da fare?
E.B.
Uno dei miei amici mi raccontava che in Russia esiste un
modo di dire tra la gente di teatro: “Non disturbateci, non esigete niente da
noi, lasciateci morire in pace”. Quando me lo ha raccontato ci siamo messi a
ridere tutti e due. Ecco, ancora una volta la situazione è tragica, ma sfocia
nel riso. Cos’è importante salvaguardare nella propria professione, nella
propria storia? Ci sono due tipi di memoria, una che si manifesta nella
raccolta di materiali sul training, sull’antropologia teatrale, sulla
collaborazione con i maestri asiatici, sui baratti. Un’enorme enciclopedia di
esperienze tecniche che sono state filmate, riprese nel tempo e che ha un senso
salvare per quelle poche persone che sentiranno il bisogno di conoscerla. Ma
poi c’è un altro senso della memoria che è quello che mi interessa di più.
Quello del testimone, di persone che hanno vissuto, visto qualcosa di veramente
unico, eccezionale, straordinario, fantastico, di mostruoso, nel senso di un
“mostro”. Mi riferisco a un gruppo di persone di teatro che sono rimaste
un’intera vita insieme, negando la legge biologica del teatro che non tollera
la durata delle relazioni. Questo eccesso di conoscenza incorporata, di sapere
che ogni attore ha è la memoria che mi interessa conservare e mantenere viva.
Con questi attori scomparirà un mondo di biblioteche, di sapere incarnato. È
possibile, che alcune persone possano entrare in contatto con questo mondo che
si costruisce nel corso di una intera vita e che in qualche modo possano acquisire tutto questo? Non credo. Però, possono essere testimoni, sentirsi ispirati e utilizzare questo incontro come stella popolare per orientarsi e
seguire tutto un altro cammino in questo tempo in cui la gente dice:
“Lasciateci morire in pace”.
Voto
8