Con Binaural,
sesto album di studio della loro storia,
i Pearl Jam confermano la tendenza emersa nel disco precedente, Yield,
uscito nel 1998 e seguito a ruota da Live on two legs: il
quintetto di Seattle,
con i Nirvana esponente di punta del grunge rock fin dai primi anni Novanta, col tempo sembra aver acquistato
la tranquillità di chi ormai non ha più niente da dimostrare e può permettersi
di suonare per il puro piacere di farlo – che, peraltro, è lo spirito giusto
per eccellenza di chi vuole dilettarsi a fare musica –. Nelle tredici tracce di
Binaural si avverte soprattutto una recuperata ruvidezza di
suoni, un’immediatezza da sana garage band, un rock genuino,
basilare ed essenziale, una musica piena ed intensa, grezza e diretta al tempo
stesso. E non sarà un caso che le canzoni del disco conquistano di più ad ogni
ascolto successivo, si apprezzano a poco a poco, e non presentano brani
orecchiabili a primo impatto, i classici singoli da FM, insomma. Quanto ad
influenze, è da rilevare che si smussano i richiami a Neil Young, uno dei
numi di riferimento del movimento grunge, mentre i Pearl Jam preferiscono
recuperare alcune sonorità dichiaramente rock degli Who, live band per
eccellenza degli anni
Sessanta. Con il brano apripista, l’aggressiva Breakerfall, si
comincia proprio all’insegna dell’hard rock, con le chitarre di Stone
Gossard e Mike McCready impegnate al massimo dello sforzo: il vigore
chitarristico nelle successive Gods’ dice e Evacuation,
supportate da una batteria rutilante, si amplifica poi verso il punk. La
canzone seguente, l’ombrosa Light years, innesca un cambio di registro
in direzione intimistica: è il cuore di Binaural, comprendente
anche l’intensa Nothing as it seems, Insignifiance (brano in
crescendo) e la splendida Thin air, probabilmente il pezzo di maggior
presa emotiva del disco, nel quale la voce di Eddie Vedder si colora
di venature soul. Nella seconda dell’album la qualità non cala mai: da
segnalare la suggestiva Of the girl, la possente Grievance, Rival,
canzone tra denuncia e cronaca sociologica (in memoria della strage del 1999 alla
Colombine High School), la grezza ma diretta vena lirica di Soon forget
(con un Vedder impegnato all’ukulele), infine la chiusa di Parting ways,
tra epica e malinconia. Binaural non presenta mai inauditi picchi
creativi né una grande compattezza concettuale di sfondo, questo va detto, ma
neppure l’ombra di cadute di stile: l’album funziona dal primo all’ultimo brano
con una cadenza impressionante, e i Pearl Jam conquistano
progressivamente con l’essenzialità del proprio sound, sporco e
suggestivo al punto giusto. Un gran bel disco.
Pearl Jam, Binaural [Epic 2000]
Voto
7˝
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