Il glam rock ed il sound dei Velvet
Underground sono vivi e vegeti nell’immaginario musicale di Courtney
Taylor-Taylor, fondatore, indiscusso frontman, compositore, voce solista
e chitarra dei Dandy Warhols, band
formata a Portland intorno a metà degli anni Novanta e di cui fanno
attualmente parte il chitarrista Pete Holmström, la bassista (e tastierista)
Zia McCabe ed il percussionista Brent DeBoer. Il nome della band parla
da sé: ricordate la mitica banana sbucciabile firmata da Andy Warhol per The
Velvet Underground & Nico? Il trait d’union tra l’epocale
manifesto sonoro dell’underground è fin troppo palese e non a caso i Dandy Warhols
hanno già avuto il classico quarto d’ora di celebrità teorizzato dal loro
scomparso omonimo, per l’esattezza nel 1997, grazie al formidabile singolo Not
if you were the last junkie on earth, estratto dal secondo album del
gruppo, The Dandy Warhols come down. Al terzo disco Courtney e
soci hanno azzeccato un efficace concept di rock maledetto, tra
il primo Bowie e
Lou Reed, tra Iggy Pop ed i Rolling
Stones: un personale itinerario nelle metropoli bohémiennes che
ancora, a giudizio insindacabile degli autori, devono pur esistere da qualche
parte, se hanno ispirato le tredici tracce di Thirteen tales from urban
Bohemia. Diciamo subito che l’album nel complesso è bello e ricco di
ottimi modelli, un po’ spersonalizzante sotto questo punto di vista, perché è
arduo capire dove finisce il modello e dove cominciano i Dandy Warhols:
a prescindere dal dettaglio teorico la musica del disco conquista
progressivamente con l’iterarsi degli ascolti, svelando sempre nuovi dettagli.
Talvolta la voce di Courtney
Taylor-Taylor arriva addirittura a confondersi con quella di Lou Reed:
accade in tre degli episodi più riusciti della tracklist, ovvero le
contagiose Solid, Horse pills e Shakin’, quest’ultima
dotata di backing vocals che ricordano tremendamente i Talking Heads. Il
disco parte a marce basse con l’intensa Godless, che poi si apre verso
sterminati orizzonti introspettivi. Il muro di suono in cui ci si imbatte in Nietzsche
è un ulteriore esempio della capacità citazionistica della band, che
stavolta attinge a Jesus & The Mary Chain ad uso e consumo del gentile
pubblico. Tra le altre canzoni notevoli di Thirteen tales
from urban Bohemia è d’obbligo ricordare il country atipico
di Country leaver – seguita a ruota dall’atmosfera spaghetti western di
Get off –, Bohemian like you (dove Courtney ci porta a spasso
dalle parti degli Stones), l’attacco d’eccezione di Big indian e la
conclusiva The gospel, dolcissima ma non stucchevole.
Dandy Warhols, Thirteen tales from urban Bohemia [Capitol 2000]
Voto
7
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