Motus
Too late
Ideazione e regia Enrico Casagrande & Daniela Nicolò, Con Silvia Calderoni, Vladimir Aleksic, Drammaturgia Daniela Nicolò, ambito sonoro Enrico Casagrande, consulenza letteraria Luca Scarlini
Un progetto in collaborazione con Fondazione del Teatro Stabile di Torino e Festival delle Colline Torinesi e il supporto di Magna Grecia Festival ’08, L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, Progetto G.E.CO – Regione Emilia-Romagna e Ministero della Gioventù
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Come sul fondo di una piscina, in apnea, con le luci al neon fredde che cozzano con i ricordi caldi e vivi e sospesi in un tempo altrove, sempre ed ancora presente, si accende l’Antigone
dei Motus al quale è stata affibbiato il Too late coro di quella del Living
Theatre. E’ troppo tardi per l’uomo staccarsi dalla voglia di sopraffazione, è una guerra impari tra la sua fallacità e mortalità e il desiderio profondo di eterno. La sconfitta è
inevitabile. Ecco cos’è il mito, il classico perpetuato nella modernità. Perché
esiste un connubio solidale e tragico tra le esistenze, separate dall’attualità,
dalla letteratura, che in fondo siamo banali e continuiamo a sbagliare, a provare, a tentare nei secoli dei secoli, senza soluzione, senza via d’uscita, senza pane per i nostri denti fragili. Come fosse un aeroporto per partire per
un viaggio interiore, una sfilata nella quale mostrarsi, un ring-gabbia di abbracci che sono spasmi, uomini cani che abbaiano cercando carezze e contorcendosi avviluppandosi nel vortice della loro stessa carne. La sfida
figlio-padre per i Motus è quella cane alla catena- padrone, scontro fisico di morsi e maschere. In una continua altalena di dentro e fuori dal teatro e dal testo, i
due sulla scena, Silvia Calderoni- Antigone, vera potenza fisica, e Vladimir Aleksic- Creonte, teso, arguto e sferzante, mettono in
campo se stessi in una continua finzione vera, in una dolcissima verità contaminata. Il cortocircuito è assicurato. Ed allora quando lei dice: “Io mi sento un cane grosso, ma poi esce fuori questa voce da cane piccolo”, oppure “Io non voglio fare paura ma voglio essere ascoltata”,
scatta dentro una simbiosi di altissima umanità che va oltre il teatro, oltre
la divisione tra il testo e la platea, la drammaturgia e la vita. Il portento
Calderoni si scrive sul corpo come urlo estremo, resistenza civile prossima all’azione terroristica finale, tatuaggio indelebile per gridare i suoi motti, slogan da corteo, da rivalsa, da rivolta. La ragazza racconta della sua Romagna dell’adolescenza, l’uomo ci fa vivere gli attimi dei bombardamenti sulla
Serbia. E’ come un crampo questa oscillazione senza equilibrio della guerriglia alla ricerca forsennata del potere che trasforma
gli uomini in bestie latranti, le case in cucce, in grotte: “Chi insegue il potere beve acqua salata. Non può più smettere”.
Abbiamo delle comode maschere dietro le quali nasconderci ma, anche se tolte,
sotto il trucco rimane. Pagliacci che non fanno
ridere.
Voto
8
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