Il terzo capitolo del reportage di Tommaso Chimenti di www.scanner.it dal
laboratorio di Jan Lauwers all’interno di OctoberTest. Gli allievi erano arrivati al workshop con alcuni loro materiali, estratti, stralci, lavori, piece, spettacoli interi, performance, idee. Lauwers non le ha cancellate, le ha valorizzate. Non le ha cambiate, le ha migliorate, armonizzate. Non le ha travisate, tradite, ma ottimizzate. Quattro giorni per
cinquanta minuti dove sono emerse le varie personalità dei danzatori, la
tecnica del regista, la passionalità del gruppo, un cumulo di persone
affiatate, vicine, coinvolte, complici. Il regista belga è riuscito a
trovare l’alchimia giusta, coniugare le diverse esigenze in una filata
finale che chiamare saggio sarebbe riduttivo, che chiamare spettacolo sarebbe
eufemistico. Una buona prova d’insieme. E’ riuscito a legare le
varie parti singole, a cucire i pezzi in un ensemble drammaturgico, in un fil
rouge dove le potenzialità di molti protagonisti sono emerse. Ed allora
Lydia, nel suo tubino aderente nero appena aperto sul fondo schiena come la vecchia pubblicità del Martini, entra ancheggiando e cantando nella sua splendida intonazione soffice e sontuosa, intensa e sentita, sensualissima, accavallando le gambe come Sharon Stone in “Basic Instinct”, si miscela con Carlota in mutande ed ali da angelo che quasi muore soffocata, tossente, aggozzata inghiottendo un acino d’uva in una mossa che a prima vista doveva sembrare intrigante. E’ un magma in continuo
movimento, si amplia e si dipana, si forma e si sfalda per poi ricomporsi in un
battito di piedi tambureggiante e solido. Dietro, nel video alle loro spalle, appaiono intanto i sette peccati capitali a rotazione, quasi lampeggianti, sicuramente subliminali. Under my skin. Qui, è proprio qui, che parte il leit motiv di tutta la piece, la colonna sonora ridondante e ricorrente, il refrain che ti entra nel cervello senza lasciarti in pace. I Queen impazzano, Freddy Mercury
gorgheggia che sembra vederselo davanti agli occhi con l’asta del microfono in mano ed i suoi classici e caratteristici baffoni. Ballano come zombie alla Michael Jackson in una danza rituale totemica attorno ad un fulcro intercambiabile. La potenza del
ballo collettivo, allegro e sferzante, lascia presto il tempo e lo spazio alla commozione nella fermità, nella fissità e nell’immobilismo di Nicholas che resta sul posto ragionando, con la sua voce fuori campo, sulla “necessità” e
sull’“identità”, lui che ha conosciuto il padre dopo i
trent’anni, con lo stesso sangue ma perfetti sconosciuti, addirittura
senza parlare la stessa lingua. Pieni e vuoti. La piece l’ho vista
nascere, crescere, evolversi, svilupparsi, ne ri-conosco i tratti come un
parente alla lontana, la sento, la vedo, è anche parte di me, del mio
tempo sulle sediole laterali per non disturbare. E’ amore, non è
stato amore a prima vista, ma adesso la creatura mi piace, è festante.
Francesca racconta la sua storia di un passaggio rotolando verso Sud, correndo da Napoli alla Calabria, nel suo inglese stentato e tutto italiano e povero, volutamente, di vocabolario, mentre Catherine amplia i suoi concetti, li travisa esagerandoli, le corregge la pronuncia e Stefan interrompe continuamente al microfono presentando gli altri intervenuti sulla
scena. L’aria è elettrica di sorprese, di attese, di incroci, di incontri, di apparizioni, di epifanie. Benjamin balla la sua danza nuotante prima che tutti comincino, sempre sulle note dei Queen, ormai tormentone
sibilante, a suonare i loro strumenti musicali virtuali. Una calca complessa, una somma di corpi che va a distruggersi, liquefarsi, infrangersi, cadere in un ammasso informe di carne. Si alzano redivivi prima della tosse collettiva che
li coglie. Sembra di vedere gli impiegati delle Torri Gemelle nei loro uffici pieni di nebbia e fumo sputare i loro ventuno grammi nell’ultimo undici settembre che hanno visto. Catherine, tra le più brave assieme a Lydia, espone il suo monologo arrabbiato dando degli ipocriti al pubblico. Rigola, pure
citato nel finale spiritoso, se la ride, Lauwers dice, indicando i “suoi” ragazzi,: “Beautiful people!”. Il cielo è
sempre più blu.
Voto
8
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