Teatro delle Albe
Stranieri
Di Antonio Tarantino, regia Marco Martinelli
Con: Luigi Dadina (un uomo), Ermanna Montanari (sua moglie), Alessandro Renda (suo figlio) . scene e costumi: Enrico Isola, Ermanna Montanari . assistente scene e costumi: Claire Pasquier . progetto luci: Vincent Longuemare, foto di scena Claire Pasquier
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Lo straniero che sta fuori di noi
è un pretesto, un vetro, sporco, opaco e dai mille riflessi annebbianti e confondenti come luci stroboscopiche, dentro il safari al
nostro interno. E l’Uomo medio (un Luigi Dadina
esorbitante e possente) del testo di Antonio
Tarantino lo scopre a suo discapito. Non basta pagare le bollette, non
basta essere un brav’uomo (che cosa significhi poi oggi essere una brava persona?), non basta fare la raccolta differenziata. Etica
e morale che cosa sono diventate? La coscienza bussa ed ha le sembianze della moglie, defunta e maltrattata (gigantesca come sempre Ermanna
Montanari, presto nel ruolo dell’Avaro di Moliere),
e del figlio che abita lontano. Siamo estranei anche al sangue del nostro sangue. Siamo “Stranieri”. Siamo votati alla sconfitta.
Siamo dighe con mille crepe da ripianare, colmare con la malta dei giorni e il cemento della sofferenza, e che, comunque, inevitabilmente, porteranno a valle detriti e ruggine, rabbia compressa e insoddisfazione. Siamo Vajont. Invidiamo lo straniero che arriva perché affolla le nostre vie che noi abbiamo
abbandonato per salotti anestetizzati ed anestetizzanti, riempie le piazze con
la vita, gli schiamazzi, la linfa, la carne, il suo esserci senza rintanarsi. La
televisione, il frigo pieno ci hanno lobotomizzato. Lo straniero non ha altro luogo per sentirsi, per riconoscersi, proprio nell’attimo della tana e del rifugio per i “normali”, per gli integrati, per chi non ha
problemi forse perché ha smesso di farsi domande. Il mondo è trasversale, la
nostra realtà multifaccia, siamo montagne di selce a strati, dura e friabile allo stesso tempo, una pentola dove
il buono ed il giusto si sono mischiati indissolubilmente con lo sbagliato ed
il conveniente, con la soddisfazione dell’ora e del qui, del presente, con la
paura del futuro e la conservazione della specie, del proprio clan. Il
box-loculo delle Albe è lo stesso
di “Sterminio”.
E questo “Stranieri” ne potrebbe essere un prequel, o una sua sottotraccia,
all’interno dello stesso condominio. Un palazzo- Italia chiuso, impoveritosi
nel suo barricarsi, fucile spianato a difesa dell’orticello. Ma
non si può fermare il vento, gli spifferi passano sempre da sotto le porte. Non
si possono bloccare tutte le frontiere, controllare tutte le onde del
Mediterraneo. Insomma, uno scoglio non può fermare il mare. La libertà allora
diventa un’autoprigionia, le catene
una scelta volontaria, a patto che il mondo là fuori non faccia troppo
rumore. “Finché sto chiuso qui dentro sono salvo”,
dice tra l’orgoglio e la rivincita. Ormai abbiamo tutto quanto dentro che è inutile cercare fuori ed anche i bisogni indotti non hanno fatto altro che azzerare i desideri rendendoli innocui nella loro impotenza. Non abbiamo più
voglia di avere voglia. Da qui le repressioni
sessuali. Ma i morti, le ombre, i problemi interiori irrisolti continuano a bussare insistentemente alla porta del sonno, del sogno,
degli incubi. Vite per le quali la morte è l’ambizione finale di una liberazione completa per chi si è sempre sentito assediato. Dall’altra parte ci facciamo forti della scienza, del progresso, per continuare in eterno
un’esistenza di resistenza senza conoscere il nemico che combattiamo, che non
riusciamo a distinguere perché ha i nostri stessi tratti somatici. Abbiamo
paura della morte proprio perché troppo attenti e concentrati sulle cose che
abbiamo, che possediamo e che, invece, infine, ci posseggono.
La ricerca di pace e tranquillità, di serenità si esplica in voglia di silenzio. Ma anche il silenzio fa rumore,
è assordante se dentro i fantasmi rimbombano con il loro eco di domande che
rimbalzano. Non basta fare il proprio dovere. Qual è il dovere di ogni uomo?
Non può essere solo salvarsi, che l’inizio e il finale sono già scritti. C’è da
inventarsi l’intermezzo. E’ quello il paradosso, l’ossimoro, il difficile.
Voto
8
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