C'è Del Buono in Stenterello
L'incredibile storia della nascita della maschera fiorentina
Soggetto di Alessio Venturini, testo di Alessandro Riccio, costumi Katia Pepe, Daniela Ortolani, luci di Marco Santambrogio, oggetti di scena di Laura Sassi. Con Alessandro Riccio nel ruolo di Stenterello, Silvia Paoli, Lavinia Parissi, Nicanor Cancellieri, Roberto Andrioli, Giuseppe Marchese
Dall'11 al 15 febbraio 2009 al Palagio di Parte Guelfa, Salone Brunelleschi, Firenze
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Dopo il Mese Mediceo
un’altra felice intuizione di Alessandro Riccio e
della sua Tedavi 98: riportare in vita, e proprio sotto
Carnevale, l’unica maschera da coriandoli e cenci fiorentina.
Nata a teatro, appunto come suggerisce il titolo a doppio significato, dalla
penna e dalla fantasia a fine Settecento dell’attore Luigi
Del Buono, lo Stenterello
di Riccio diventa un’affascinante analisi, senza perdere il suo solito ritmo e
senso della battuta brillante, sul doppio pirandelliano, sull’essere e
sull’apparire, insomma una riflessione, dall’interno, del mondo dell’attore. Chi
meglio di Riccio poteva interpretarlo: magro, dinoccolato, gracile. Ma lo spettacolo tutto fa tranne stentare. Anzi, vola sul
pentagramma colorato e leggero sull’impianto “delusione, amorosa e
professionale, nascondimento, rivelazione, riscossa, amorosa
e professionale”. Il soggetto è di Alessio Venturini.
La regia di Riccio si circonda di attori genuini tra i quali spicca
Silvia Paoli che ci mostra, così come nel “Magnifico Lorenzo”, una vasta gamma
di aperture e slanci, di cambi di registro, pur restando nel lieve e nello scanzonato,
di scosciature e spaccate (esilarante la scena della
prostituta, Verginea, che, mentre soddisfa carnalmente un cliente, elargisce
consigli di vita all’amico), di toni di voce, dal ridicolo al grave, dal
fanciullesco all’attoriale profondo, accompagnando la
timbrica gutturale ad un corpo teso e elettrico pronto e scattante.
Divertentissimo anche lo stacco del casting per la selezione degli
attori da fare entrare nella compagnia. La lettura della visione è
stratificata. Riccio (una Maria Cassi
al maschile) è riconosciuto come il portatore a Firenze del teatro in costume,
ma né volgare né vernacolare, in splendidi luoghi non convenzionali. La
scrittura e struttura drammaturgica di Stenterello
ne sono la forza, i personaggi sono ben costruiti con un’anima che travalica il
lazzo e lo sberleffo, giochi nei quali a volte le piece
ricciane avevano esondato. I
costumi sono raffinati. Riccio si ritaglia il corposo “pasto” dell’attore che
viene fagocitato dal personaggio in un duello interiore schizofrenico,
di rabbia e gelosia, tra corpo e mente, tra coscienza nascosta e Io esteriore.
Lo specchio e la maschera danno al confronto dialettico tra le due ragioni che
albergano nello stesso corpo un microclima di mistero che si dipana in una
risata ristoratrice e in un lieto fine appagante di
riconciliazione con il sé. Anche l’inizio, da “Rumori fuori scena”, vede
un interessante azione di ribaltamento tra una platea
immaginaria inesistente ed il pubblico reale (assiepato nella sala del Palagio
di Parte Guelfa, palazzo magnifico ma la risposta dell’audio ne ha
risentito) che si gode la schiena degli attori, nel testo e sul palco,
evidenziando, fin da subito, il tema del doppio. Le considerazioni si spostano
anche sul mestiere dell’attore, percorso, attuale e moderno, comune a chi cerca
un mestiere artistico per seguire la propria spinta
interiore della creatività, rinunciando alla tranquillità di un lavoro,
cosiddetto “serio” e come tale a livello sociale riconosciuto. Tra cedere al
proprio istinto senza certezze o cercare il posto fisso, che comunque oggi non
esiste più. La precarietà come fulcro, come spina e pungolo per la crescita e
la ricerca, come limite che non riesce a donare serenità e stabilità per
programmare e progettare un futuro. Riccio ci mette brio nel ricostruire la
storia personale dell’inventore della maschera della
commedia dell’arte fiorentina, dalla bottega da orologiaio in Piazza Duomo alla
passione per il palco. Il vocabolario della maschera con il nasone è ridanciano
e volgare, la costruzione delle frasi è contorta, propone continui neologismi
sbracati, sbaglia i verbi. Ma i periodi sono ficcanti
e colgono nel segno, colpiscono con sagacia e astuzia e puntiglio da strada,
mettono con le spalle al muro, con una comicità da borgata, sferzante,
sprezzante e impertinente, che non tiene conto di ruoli o titoli. Stenterello
non ha paura, è impunito (un primo Benigni)
e questa sua sfacciataggine lo salva, gli regala quell’aura di attendibilità,
di sincerità simpatica, di bocca della verità da giullare di corte con la
consapevolezza acuta del non poter essere imbrigliato in schemi e regole. Ha
sempre la battuta pronta e non si fa mettere i piedi in testa da nessuno,
evitando la polemica con una risata finale e pacche sulle spalle. E’ un
popolano che ha mantenuto salda la vivacità di una dialettica, sboccata, liquida
e d’assonanza, spassosa di bollicine piccanti.
Voto
7
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