Tra qualche decennio il Fiorino
d’Oro sarà consegnato ad Alessandro Riccio. Noi
saremmo stati i primi, ante litteram, ad averlo scritto, detto, pronosticato e
promosso. Tra poche settimane partirà la nona edizione del “Mese Mediceo”.
Intanto in queste stagioni ci ha fatto riassaporare, e appassionare nuovamente,
a personaggi che hanno fatto la storia di Firenze, la nostra storia, partendo
da Del Buono fino a questo “Stefanaccio”,
all’anagrafe Stefano Bardini. Alcuni bollano le sue iniziative come
“commerciali” o “turistiche”. Cosa che, comunque, in sé non sarebbe un reato.
Riccio ci apre le catacombe, come le mura, i corridoi chiusi da secoli, le soffitte, i parchi, le ville, i cancelli, i giardini, i sottosuoli, i vicoli, gli antri segreti. Grazie a lui Firenze è un po’ più dei fiorentini. Le sue non sono semplicemente rievocazioni dai costumi esemplari. I suoi sono studi
appassionati ed innamorati, entrando dentro il personaggio che diventa la sua
nuova “casa”, guscio ed appoggio. Riccioli imita, ne prende le movenze, il
carattere, il profilo, la voce, ne fa una miscela tra macchietta, divertente,
amplificandone i difetti, parodia, accentuando il grottesco, mettendoci una
grande umanità nel tratteggiarli. Umanità e pathos che vanno a toccare le corde
della psicologia della persona, ci fanno sentire testimoni di un piccolo grande
miracolo teatrale, come fossimo teletrasportati indietro nel tempo, nei secoli, ed avere la reale possibilità di sentire, accorciate, abbreviate, romanzate e compresse, vicende e visioni, respirare quell’atmosfera di eterno che la polvere, la morte, il passato inevitabilmente portano con sé. Ed è così anche in quest’ultimo “Stefanaccio” dedicato al Bardini dell’omonima Casa-Museo in San
Niccolò (via de’ Renai angolo piazza de’ Mozzi, http://www.museicivicifiorentini.it/bardini/;
055.2342427, assolutamente da visitare, con i suoi oltre duemila pezzi), riaperto e restaurato da un paio d’anni. Un personaggio, sconosciuto ai più, simile allo Stibbert,che forse è più visto per la nostra intrinseca esterofilia, burbero e pensoso, che nella
vita comprò, vendette, accumulò, espose, come un banchiere, come un manager, ma con un grande amore per l’arte, per la storia, per i suoi artefici ed artisti.
Un amore grande e folle quello che Bardini aveva per l’Arte tanto da spingerlo a lasciare tutto il suo immenso e sterminato patrimonio al Comune di Firenze.
Riccio ne incarna l’alterigia, la superiorità, la durezza, ma anche i vizi, le psicosi, le piccole debolezze in scene itineranti, in quadri che portano il pubblico (ottanta spettatori a replica) a cavalcare l’abisso e la maestosità
del progetto bardiniano, magnifico e fallace come quello di qualunque collezionista. Peccato non essere però riusciti ad entrare, con le mosse della rappresentazione, nella sala dove è custodito il vero Porcellino, proprio qui conservato. Accanto all’attore-regista l’affascinante Silvia Paoli
(“Livia” la sua piece più riuscita) che si (ci) diletta in dame, realmente esistite, di pizzi e merletti, ora piene di debiti, che si concederebbero volentieri al mercante, adesso attrice, amica-nemica-idolatra-emula della Duse, eccentrica e isterica. Se la Paoli la conoscevamo, sorpresa più che positiva è Gianluca Minari nelle vesti di custode tuttofare muto oppure, straziante e commovente, in uno dei tanti piccoli cercatori di opere che per un tozzo di pane “regalavano” pezzi d’inestimabile valore al Bardini che successivamente le vendeva ai musei di mezzo mondo a peso d’oro. Bardini, se all’inizio rimane antipatico ed indigesto, alla fine provoca un moto di compassione e vicinanza e solidarietà per un uomo che non ha condiviso con nessuno la sua passione, il suo lavoro, i suoi averi (avido come Paperon dei Paperoni) ma che alla fine si è riscattato donando tutto il posseduto ai suoi concittadini.
Voto
8
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