Un bunker antiatomico, un rifugio antiaereo, una tana, un covo dove l’aria diviene a poco a poco irrespirabile ed il conflitto sale, la tensione esplode.
Nove personaggi chiusi claustrofobicamente dentro uno stanzone in attesa, fuori la milizia, realtà o immaginazione, la guerra civile, i possibili rastrellamenti.
In questa situazione critica ed al limite del grottesco, i nostri non sanno da che cosa scappano, da chi si rifugiano, stile “Underground” la pellicola di Emir Kusturica o la soffitta di Anne Frank, i nove ridono, si battono, giocano.
Tre donne, il coro del teatro greco, due picciriddi, il nonno in carrozzina, tre uomini, lo zio e due fratelli, Caino ed Abele, che si contendono il potere del gruppo, il predominio all’interno del branco in assenza del capofamiglia che beckettianamente attendono e del quale non si vede l’ombra.
Molti i punti di contatto, al di là della lingua usata, con l’altra grande scoperta siciliana del teatro contemporaneo, Emma Dante.
Il dialetto palermitano, sembra sangue vivo che cola dalle bocche dei personaggi, avvolge e taglia il tutto, unge i gesti, fermenta le azioni violente, gli scatti d’ira, puntella d’acidità i rapporti che la forzata convivenza, come in un Grande Fratello esistenziale, a poco a poco disunisce e spezza, creando nuove alleanze interne, faide, guerre, altarini che si scoprono, scheletri nell’armadio che si sciolgono.
Tante, troppe regole gelide riempiono le giornate di noia fatte di divieti e rinunce all’interno della stanza riparo, quasi caserma con gerarchie da rispettare, nonnismi vari, scale e gradini, l’onore.
Potremmo essere in qualsiasi paese ed in qualunque tempo, passato, presente e futuro, è uno spaccato visto dal buco della serratura, ma potrebbe essere anche un possibile continuum di “Schegge”, l’altro monologo, sicuramente meno famoso e rappresentato di “Italia Brasile 3 a 2”, del trentenne autore siciliano Davide Enia, questa volta soltanto nei panni esterni di scrittore della sceneggiatura e partitura e regista.
Un testo, della durata di un’ora, che coglie nel segno anche se uno spazio ampio e vasto a perdita d’occhio di quinte come il Fabbricone forse non rende merito al testo che avrebbe necessitato un più angusto scenario.
La scena finale inoltre non lascia spazio all’inventiva né alla fantasia dello spettatore e spiega il titolo truce da macelleria, il gioco al massacro di sputi, lotte, botte, risse, spari.
Scene da sogno felliniano ed idilliaco le bolle di sapone ed ombre, allegoria disperata della vita, solitudini che s’incontrano, il mimo-gioco- imitazione di galline e piccioni che unisce tutta la famiglia nell’ultimo atto prima della disgregazione fatale
Voto
8
|
 |
|