laLut
Le sagome
Di Filippo De Dominicis, con Sergio Licatalosi, Francesco Pennacchia, Angelo Romagnoli, costumi Marco Caboni, luci Silvia Bindi, editing musicale Stefano Jacoviello
Co-produzione: Armunia, Festival Voci di Fonte Siena, Festival Errances di Conques
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E' talmente potente e folgorante,
e attuale, l'immagine dell'urna elettorale, che brilla e s'illumina di colori
sparati in una stanza familiare smorta e colma d'angoscia, che viene in mente
il non aver mai visto, né sulla scena né altrove, tale, abbagliante,
abbinamento. Forse l'Italia e gli italiani hanno, da sempre, da prima del
reuccio di Arcore, fin dalle prime elezioni nella scelta tra Repubblica e
Monarchia che, si dice, siano state caratterizzate da brogli, un problema con
le schede elettorali, con il voto. Un tabù che La
Lut con “Le sagome” scandaglia ed
indaga con lucida ironia leggera e sottile e soffice, a tratti infantile, pura
per poi esplodere senza riserve nello scorretto. Tre spermatozoi in costumini aderenti ed adamitici si
aggirano, sconvolgendolo e distruggendolo, per un seggio elettorale. L'urna e
le cabine diventano il set per un continuo gioco tra rincorse e botte dove alla
fine a votare è sempre lo stesso personaggio, mentre alcune schede vengono distrutte, altre mangiate e strappate a morsi. Si
ride. Molto i bambini. E' un impianto delicato muto con improvvise
accelerazioni e pause esaustive, dopo la muta rosa di Angelo Romagnoli (periodo
fervido: “Amleto a pranzo e a cena” con De Summa, “Il mercante di Venezia” di
Civica, la novità dell'Aspettando
Godot degli Egum, a
breve “Il custode” di Pinter ad Armunia), quella coloratissima e psichedelica
di Francesco Pennacchia e la zebrata da savana di
Sergio Licatalosi. L'impatto è estetico, cromatico,
da miscela allegra e fantasiosa, di una forza dirompente, a tratti commovente.
La loro magrezza sfila in mezzo ai teli bianchi svolazzanti, fuscelli sbattuti
al vento in un campo di grano, bastoni che si piegano come fili d'erba senza
spezzarsi, candele flebili. Siamo sagome, siamo figure, figurine in mostra per
i calcoli di altri, siamo spostabili, intercambiabili, numeri. Ballano e
saltellano nei loro anfibi guerreggianti, nei loro bastoni da drughi, negli
occhiali dai colori azzardati come Giampiero Mughini o Elton John, negli scudi che sono coperti
di pentole, cavalcando un destriero di peluche lanciato al galoppo. La croce
sulla scheda non è segreta ma continuamente spiata, ci si tura il naso con un acchiappino da panni
per non sentire l'odore fetido del “meno peggio” e la coscienza morale che si
ribella come sommovimento intestinale, fino a sentirsi male, come folgorati
dalla corrente, dopo aver imbucato il foglio con il timbro del Ministero
dell'Interno. Prima si va a votare, con l'abito della domenica pensando di cambiare
il mondo, poi si torna a casa, dove la solitudine regna e imperversa, dove
mogli barbute dalle tette di palloncini gonfiati a dismisura fanno fusa simili
a caffettiere in ebollizione (paiono la Linea di Cavandoli)
con il marito erotomane e centrofallico, anziano
affetto da priapismo, ed anche qui la mente corre in un'unica direzione.
Famiglie di molestatori che scartano violentemente i regali per il pargolo
cresciuto, un figliol prodigo che torna portando la luce del tubo catodico che
illumina e anestetizza vite già scialbe e spente. Lo
scatto da ricordare: le fotografie delle quali è possibile leggere soltanto le
didascalie senza avere accesso all'immagine è pura poesia. Come tutto il resto.
Voto
8
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