Storie brevi per imparare a
raccontare storie. La quinta tappa degli “Album” che hanno
accompagnato Marco Paolini
dall’infanzia (attraverso le avventure del piccolo Nicola, al rugby, alla
politica, alle stragi degli anni Settanta, fino alla scoperta dei due veri
grandi amori: il teatro ed i treni) viene ripresa anche in questa estate 2003,
proponendo sorrisi amari e amarcord, come sempre per non dimenticare. Ma in cosa Stazioni di
Transito, il lavoro che Marco Paolini ha
portato in scena martedì 5 agosto 2003 allo Scalo Merci della Stazione di
Arezzo? Per descriverlo è necessario cercare tutte le sfumature di due
aggettivi di norma antitetici: il pubblico delle rappresentazioni si è infatti
trovato di fronte a uno spettacolo insieme semplice e complicato. Semplice
innanzitutto nella scenografia: scarna, essenziale, misurata; il palco,
trasformato in angolo di una qualche periferia italiana; un tavolo, un quaderno
di appunti un quaderno di
appunti e, sullo sfondo, una stampa ingiallita su cui s'intrecciano,
allettanti, binari vuoti (quasi ci si aspetterebbe che da un momento all'altro
inizino a scorrere, insieme alla musica dei violini e delle fisarmoniche,
portando lontano). Sobrio è il modo di porsi dell'autore
- attore, che si siede e guarda in faccia il pubblico, cominciando a
raccontare. Spettacolo semplice perché, si potrebbe dire, parla al cuore Paolini ricorda facce,
atmosfere e paesaggi quasi concreti, che ci sembra di aver incontrato o che
avremmo potuto incontrare; tratteggia il testo con la leggerezza e la vivezza
di un pittore esperto, non solo interpretandolo, ma divenendone parte e
personaggio. E qui, in maniera
complementare a ciò che ho detto, Stazioni di transito si rivela difficile, nel
senso di ritmicamente complesso: cioè costruito ad arte alternando con
sensibilità musicale l'ironia e il disincanto, la comicità, il dolore e
l'ingenuità, la tenerezza e l'amarezza venata di rabbia. Si instaura un attento
gioco di riflessi e sovrapposizioni tra i personaggi che nascono nella voce,
nella faccia di Paolini: l'attore diventa Nicola (il personaggio al centro di
tutto il ciclo degli Album
di cui <I>Stazioni di transito</I> rappresenta l'ultimo anello),
che ci racconta la storia con Norma, e nel farlo diventa Norma stessa; ritorna
Nicola che ci parla di Nano sepolto nella terra del terremoto
di Friuli del '76; diventa Nano, diventa i suoi soccorritori e nelle loro
parole diventa Teresa, la giovane professoressa che per amore parte per una
'comune' nella campagna toscana…e ogni storia ha il suo ritmo, incastonata
perfettamente in quella che la contiene, come in una partitura musicale.
Paolini riscopre e fa riscoprire l'arte della narrazione: mezzo antico con cui
il teatro acquista nuova freschezza, nuova e credibile spontaneità liberandosi
dall'odore di stantio (nelle stesse parole dell'autore*) dell'edificio in cui
da troppo si è arroccato, rinchiuso e imprigionato (importantissima per questo
la sua esperienza con il teatro di strada). Ancora: questo tipo di teatro
non è pacifico, non è comodo o rassicurante come le macchiette cui ci ha
abituato la televisione. A renderlo difficile, problematico, c'è la storia: gli
anni settanta, con le bombe e le stragi, con gli errori e le illusioni. Ed è
provocante, se lo si considera dal punto di vista delle ultime generazioni,
ammalate come sono di poca memoria storica: suona come un invito ad informarsi,
a ricostruire pazientemente il come e il perché di ciò; che è stato sbagliato.
Il racconto del passato non è pretesto per un amarcord generazionale, ma
sguardo dignitoso e artistico su quanto, in esso, potrebbe e dovrebbe risultare
ancora rilevante (si pensi al Racconto
del Vajont che ha fatto conoscere Paolini al teleschermo). Qui
si mette in luce quanto l'arte possa essere infinitamente più paziente dei
nuovi media nel restituire al pubblico l'emozione del passato, nel renderci
consapevoli che siamo ancora vivi, sì, ma abbiamo pagato e troppo spesso con il
prezzo della memoria.
Voto
8
|
 |
|