Come nelle polaroid, vero oggetto
culto del nostro passato recente, precursore della fotografia digitale, si immortalano Gli
Omini nel loro “Gabbato lo Santo” (interessante tre giorni a loro dedicata
proposta dal Teatro Everest), immolandosi al ludibrio in una mostra delle
perversioni normali, dei “delitti” comuni, dei malcelati vizi striscianti.
Nessuna scenografia, solo quattro corpi, quattro topos, quattro stereotipi e
tipologie di uomini medi, grigi ma che si sentono originali e illuminati,
geniali nelle loro affermazioni sentite e scontate. Le loro sono chiacchiere da
bar riportate in forma drammaturgica, il banale, il trito di paese, il già
sentito e spacciato come abbagliante. Sono semplici i personaggi tratteggiati,
forse neanche pericolosi presi singolarmente, ma è la massa, il concentrato di questo ominide moderno che può creare delle
controindicazioni. Quattro tipetti per niente rassicuranti: c’è lo psicolabile
autistico esagitato (Francesco Rotelli), la femme
fatale insicura (Francesca Sarteanesi), l’ingenuotto di borgata, scemo del villaggio un po’ Verdone
in “Bianco, Rosso e…” (Luca Zacchini), il capocompagnia pseudosaggio
(Riccardo Goretti). Gli Omini ce la mettono tutta per distruggere le tradizioni, in primis la
religione cattolica, il matrimonio, a sconfessare i padri, ad esaltare la
stupidità latente (stessa materia trattata dai Sotterraneo), i luoghi comuni
che ci scorrono sotto pelle (simile disciplina dei Babilonia Teatri nei loro “Made in Italy” e “Pornobboy”),
a far emergere il nulla del quale è composto il nostro dna. Sono sgarbati e
schifosi, terribili, maleducati e maschilisti, delinquenti, rustici e triviali,
rurali e grotteschi, anticlericali da scomunica, blasfemi, politicamente
scorretti (a tratti hanno lampi di Antonio Rezza),
incolleriti, hooligans, toscanacci
maledetti, bastardi amari, banditi, disgustosi, scomodi pistoleri, marci,
rivoltanti. Siamo noi allo specchio: brutti, sporchi e cattivi, pentole a pressione pronte ad esplodere nella frustrazione, nel
parapiglia della vita divenuta spot e pubblicità, colorata, accecante e finta. Sono
Homer
Simpson ma più pungenti, sono i personaggi di Cinico Tv ma più brutali,
sono gli “Amici Miei” dei tempi moderni, sono gli attuali “Giancattivi”.
Sono sovraeccitati, energici, si parlano addosso senza ascoltarsi, corrono e si
abbracciano come se fossero al Mundial, sono fisici e
terreni, che l’uomo è, e rimane, pur sempre un animale, imborghesito, ma pur
sempre una bestia da istinti primordiali. Ed allora, a raffica, arrivano
stilettate a flusso continuo, coltellate alle spalle senza pentimento, senza
coscienza, senza rimorsi: colpi alla comunità omosessuale, “Sono gay”, “Non è
un problema, pensa io ho un cugino nano”, vai col liscio a gamba tesa sul Santo
Padre, “Anche il Papa è gay”, “Come fa ad essere gay, è fascista”, per finire a
gomiti alti: “Meglio fascisti che froci”. Fanno il saluto romano, che tanto è
stato sdoganato ed ormai chi è che non ha un busto del Duce sulla scrivania
come fermacarte. La loro acidità deriva direttamente dalle nostre casette con
le trine alle tende, dalle famigliole che hanno intervistato nel loro
ispezionare piccoli comuni in giro per l’Italia. Quel che ne esce è un quadro
disarmante, fa evidentemente molto ridere, e desolante nei discorsi ammezzati ed abbozzati, nell’analfabetismo di ritorno, nell’incuria
dei rapporti interpersonali, nel provincialismo fatto passare per vanto, nel
gramelot sgrammaticato ed incomprensibile per mancanza di terminologia e, come
diceva Nanni Moretti,
“se parli male, pensi male e vivi male”. Si sputano in faccia, urlano, vomitano
un pandoro, tanto per spezzare le reni anche al Natale. Le loro mitragliate
pungono i giovani, i drogati “di oggi sembrano persone normali, non li
riconosci”, gli handicappati, i Verdi, gli stranieri; praticamente
non manca nessuno all’appello alla nostra tracotanza, al nostro nervosismo
verso lo sconosciuto, il diverso, inteso come minaccia soltanto per la sua
esistenza, per il suo volume di carne che ci si para di fronte. Perché, in
fondo, prima di colpire il poveraccio che fa l’elemosina, ci facciamo
il segno della croce. Siamo italiani, dopo tutto.
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