Tre giorni volati, mangiati, aspirati, bevuti. Tre giorni, nove spettacoli, una decina di
Visionari, una decina di Fiancheggiatori. A Kilowatt 2011 sale sempre piene, lo sponsor dell’amaro Braulio fresco shakerato (con la ragazza del bar alla quale sono spuntati tricipiti e bicipiti a forza di
roteare il contenitore d’acciaio stile maracas) a scorrere. E poi il chiostro,
il freddo serale che poteva sembrare ottobre, il Pubbone con le panche ed i tavoli in legno, la piazza grande con il campanile in pietra ed il mercatino dell’antiquariato, la notizia della
morte di Amy Winehouse, quella ancora più atroce della strage dei cento ragazzi norvegesi. Ed ancora la tavola rotonda-ricordo di Franco Quadri senza lacrimazioni inutili, sul filo
dell’ironia, tratteggiando un grande personaggio che ha cambiato e connotato il
teatro degli ultimi quarant’anni in Italia. Visionari e Fiancheggiatori, dicevamo. I primi scelgono gli spettacoli su un supporto video di venti minuti durante l’inverno, sciroppandosene, quest’anno, 370: coraggiosi e temerari. I
secondi se ne sparano tre a sera. La mattina l’incontro chiarificatore con domande, discernimenti, considerazioni, consigli,
suggerimenti, suggestioni. Alcune serate deludenti, altre ottime. Le parole che più sono uscite dalla griglia degli abitanti di Sansepolcro sono state “emozione”, “scommessa” oppure “non è come era in video”. Per forza. Si possono rintracciare alcuni fili conduttori: la critica-denuncia in equilibrio tra ironia e approfondimento letterario unisce, con stili
differenti, il “televisivo” da presenta(t)tore de “Le ultime sette parole di Cristo” del romano Giovanni Scifoni con “A tua immagine” dei milanesi Odemà dove Dio e il Diavolo in combutta, con un bacio blasfemo appassionato finale, spediscono Gesù
sulla Terra a farsi martire per i loro obiettivi materiali. La danza contemporanea lega “Viola” del giovane, e già molto consapevole, Marco D’Agostin, ventenne ma con il piglio giusto ed una marcia in più, con la scena dell’evirazione a chiudere come segno forte dell’intera mini piece, e “Leoni” di Matteo Fantoni, delicato tratteggio del coraggio e della mancanza di esso in molte nostre
vicende azioni votate al fallimento non per l’impossibilità di portarle a
compimento ma quanto per la negatività pessimistica nell’approcciarsi alla
novità colma di difficoltà. L’energia al limite della violenza, ben venga un
teatro sudato, conduce a braccetto “Ubu rex” del collettivo di La Spezia degli Scarti, encomiabili per dedizione e costanza e voglia di non farsi abbattere né scalfire dall’incertezza, dal precariato e dai continui ostacoli all’emersione (non mollare è l’appassionato
consiglio), e “L’eremita contemporaneo” degli Instabili vaganti, troppo concettuale e intellettualoide, descritto come un pezzo sulla fabbrica quando, al di là dei tambureggiamenti e dei ritmi ossessivi ed ossessionanti da
discoteca, la freschezza dell’opera risultava essere l’indubbio lavoro fisico,
tecnico, preciso e puntuale dell’attore all’interno della gabbia ferrosa
metaforica e costringente. Da rivedere, e non da vedere nuovamente, la biografia del pittore Egon Schiele con “Ogni cosa viva” che i Labit hanno reso troppo didascalicamente
in una ridondanza barocca di informazioni, dati e
documenti ininfluenti al fine della storia che era quella di un uomo sul calar
del sipario. Se già conoscevamo Linda Dalisi e il
teatro anatomico del progetto latelliano di Napoli, operazione sciolta dopo il primo anno come spesso accade in Italia, con il “Misfit” derivato dalle “Opinioni di un clown” di Boll, che già apprezzammo a Modena al Festival “Vie”, novità è stata l’“Aspettando Nil”
delle tre ragazze de La Fabbrica, troppo incensato, costruito sulla base di molti
riferimenti e citazioni, senza volerli chiamare plagi, beckettiani innanzitutto a partire dal titolo (da riformulare) fino alla carrozzina sulla scena che richiama “Finale di partita”, ma anche nel rapporto di amore, odio, dipendenza,
sudditanza, violenza sotterranea che mettevano in atto Ham e Clov da una parte e questa madre e figlia riproiettano. Mettiamoci anche Psycho,
i rifiuti di Scimone e Sframeli, il matrimonio di Emma Dante in Carnezzeria e il gioco è fatto, salvando però alcune intuizioni e qualche guizzo che è
giusto sottolineare a loro favore come il gioco delle coniugazione dei verbi per dirsi quello che altrimenti sarebbe stato impossibile
affrontare. Sansepolcro ha sempre il suo fascino, un po’ retrò, un po’ provinciale, vicino ed allo stesso tempo lontano dai centri propulsivi. Ma intanto c’è, c’è eccome, alza la testa, si fa vedere. Il Premio Speciale Ubu dello scorso anno non è stata una
casualità.
Voto
8
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