La gioia del titolo è rimasta nel cassetto, ben chiusa, sigillata a doppia mandata. Il divertimento ha fatto sciopero. Le due anime di “Joy” dovevano essere, da una parte, il teatro fisico di stampo clownesco portato
all’esasperazione fino al body contact
con rincorse, scontri, fughe, legnate varie, e dall’altro un ponte levatoio verso
le istanze ecologiste ed ambientaliste con tanto di lavagnetta luminosa che sciorinava dati su calcio, carbonio, fosforo, H2O che assolutamente stridevano con la messinscena. Il primo intento molto semplice, il secondo molto complesso. In un ammasso, che poteva ricordare un assemblaggio di un robivecchi, uno sfasciacarrozze, una rifiuteria o discarica alla Scimone e Sframeli ma molto più colorata e senza quella stessa disperazione dei
messinesi, due derelitti, due emarginati, rapinano il pubblico dei loro averi,
pistola in pugno, per farli riflettere e metterli finalmente in guardia
rispetto al possesso dell’oggetto stesso. “Le cose sono importanti”, ripetono.
Noi continuiamo a mettere, come primo sostantivo, il morettiano
“parole”. In una sorta di processo pubblico, con armi puntate sembravano quelli fotografici delle B.R. o quelli mediatici di Al
Qaeda, lo spettatore viene prima derubato in una
requisizione comunista dei beni superflui (?), della pura materia per poi
restituirgliela in una confessione aperta, e scardinamento delle dinamiche
consumistiche nell’idea degli attori promotori, quasi fustigazione e genuflessione imbarazzata per quel minimo vezzo capitalistico, il più delle
volte funzionale alla vita sociale, come chiavi d’auto, giubbotto o borsa. Gli
imbonitori non funzionano, come capopopolo non hanno carisma, la violenza messa in campo è ovattata (niente a che vedere con Antonio Rezza o con i Tony Clifton Circus!), la paura circoscritta. Joy rimane a metà strada
tra spettacolo per ragazzi con ipotesi adulte, assolutamente non approfondite, ma soltanto lanciate in pasto nell’aia della piece alla mercé del miglior offerente. Si ride per qualche gag alla Bud Spencer o alla Braccio di Ferro con Bruto, ma niente più. Nella dinamica tra il
poliziotto buono, il capo con la pistola, e il poliziotto cattivo, il pazzo che tutto sfascia con un martello come fosse il diavolo della Tasmania, non ne esce vincitore il ritmo. Ultima concessione, il pubblico tirato in ballo. Non se ne può veramente più dello sfruttamento, dell’utilizzo, dell’abuso, per la buona riuscita di una drammaturgia, anche di un solo spettatore: lasciateci in pace. Il leggero infortunio finale alla spalla (con arrivo dell’ambulanza) ad uno dei due sulla scena dispiace ma non salva il giudizio finale sull’intera operazione monca di profondità ed altrettanto orfana di leggerezza.
Voto
5
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