Incendiare, dare fuoco alla bambola Barbie come oggetto di culto, di
studio biondissimo, icona accecante di felicità estetica da adulare, di totem statico
di plastica e botulino da imitare, di bandiera gommosa
e formosa da idolatrare copiandone le fattezze, infliggendole le più penose
torture. Anticonformismo, anticonsumismo, antiamericanismo: tu chiamalo se vuoi
antiberlusconismo. Tre “mafiosi” in gessato e
occhiali a specchio, con capelli da rockabilly (comunque strizza l’occhio a
codici a stelle e strisce) con la banana impomatata, la catenona sul petto
fuori dalla maglia, mettono a ferro e fuoco, scarnificandola, l’attesa vana
della morbosità del pubblico accusato di passività, di non-reazione, di imbambolamento, di rimbambimento e deficienza e
annientamento da troppo piccolo schermo. I Tony Clifton
Circus sono bastardi, pazzi, provocanti e provocatori,
comicamente disperati, maledetti, trasgressivi, demoni marci, distruttivi e
beffardi, diabolici, anche schifosi, depressi e irascibili, irriverenti e
nichilisti, detestabili, politicamente scorretti, violentemente alterati, senza
rimorsi, mancanti del gene del senso di colpa. Sono rapitori di tranquillità,
rapinatori di serenità, stupratori del buongusto, assassini. Sono i clown folli
e sanguinari di Stephen King,
hanno occhi sbarrati da Arancia Meccanica,
lo sguardo allucinato di Jack Nicholson,
la sregolatezza di John Belushi, il sorriso sardonico da Psycho,
ma sono anche melliflui e subdoli e ingannevoli, ipnotici e debordanti. Grandi
figli di, come dicevano gli Stadio
e Vasco Rossi.
Come un concerto rock, un’invasione di campo senza regole, la corsa dei tori di
Pamplona, un’onda, un’orgia, un ammasso, un alluvione, una girandola di energia
nel massacrare ferocemente come iene fameliche un peluche gigante di un coniglio,
nello scaraventare tutto quello che passa. Sono guastatori dello status quo, sparigliatori dell’ordine con Stefano Cenci nel ruolo a lui
congeniale dell’imbonitore da strada, del pifferaio magico, del venditore porta
a porta serial killer, dell’adulatore viscido e lascivo, dell’affabulatore ora
candido e rassicurante, adesso cattivissimo, seduttore dolce e deciso nel suo
sermone ficcante e coinvolgente da predicatore, ora imbalsamato e compunto, ora
velenoso e euforico e adrenalinico e incontenibile. Si menano in una grande,
gigantesca rissa, in un tourbillon festoso e dirompente, in un gioco al
massacro di piatti spezzati a terra, nel riso da sposalizio lanciato con
violenza sulla platea, nei coriandoli che s’impastano sul palco assieme a gusci
d’uovo, a colpi di pistola, all’acqua spruzzata. Senza un attimo di pausa come
in un tunnel degli specchi, dall’esplosione di un ananas, alla farina o alla
Nutella lanciate, al suono di una motosega a tagliare a metà un pupazzo. Fin
qui tutto bene, come nell’Odio di Kassovitz<.
Se la lettura rimane leggera lo spettacolo è di puro intrattenimento, ma non
crediamo fosse il loro intento principale. La riflessione apre la forbice quando
si affida all’“Anche stasera a teatro non è successo niente” e neanche la loro
piece è stata iconoclasta. Qualcuno prima di loro aveva detto che il teatro è
morto. E i Tony Clifton nei due momenti finali, snervanti
per lunghezza, avevano avuto l’occasione di affondare il colpo ben più dentro la
carne di una risata che si perderà in altre risa: la roulette russa e il piatto
da schiacciare in faccia ad uno spettatore. Ora, dato per scontato che il colpo
in canna non fosse vero, e per la verità nessuno in sala si è posto minimamente
il problema, vista la loro anima e vocazione disfattista, potevano nella
seconda ipotesi sicuramente osare e tentare almeno la carta
dell’imprevedibilità del caso coinvolgendo veramente tutto il pubblico senza
affidarsi ad un collaboratore occasionale. Un rischio calcolabile che i TCC,
proprio perché portatori con la loro vitalità triste e fisicità punk
sconfortata di un teatro che consegni i suoi riverberi anche oltre la sua rappresentazione,
potevano assolutamente correre. Rischiando al massimo il realismo.
Voto
7 -
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