Giochi di famiglia
Testo di Biljana Srbljanovic
Regia e traduzione Paolo Magelli, drammaturgia Zelika Udovicic, Con Valentina Banci, Mauro Malinverno, Francesco Borchi, Elisa Cecilia Langone, Fabio Mascagni, scene Lorenzo Banci, progetto Luci Roberto Innocenti, Costumi Leo Kulas, musiche Arturo Annecchino
Produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana, visto al Teatro Fabbricone di Prato, il 3 marzo 2011, in scena fino al 3 aprile 2011
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Quando i giochi sfuggono di mano, e di parenti si tratta, il fine ultimo è la guerra fratricida, lo strazio a bocconi come cani di bancata, lo stillicidio di violenze, accuse a
perdersi nel tempo. Chi sta giocando, scherzando con il fuoco, si brucia. I “ Giochi di famiglia”, testo della Srbjanovic , autrice serba nata in Svezia della quale Magelli ha già messo in scena “Supermarket” e “ Barbelo ”, si praticano in un cantiere edilizio sospeso a metà tra il sogno, o il
passato, e la realtà (l’operaio in tuta blu e caschetto, Fabio Mascagni che si esibisce, nel prologo su un’alta impalcatura nel foyer del fabbricone capovolto, in una coreografia sillabica, in una continua
sottolineatura vocale, in una recitazione tutta onomatopeica, su un testo immaginifico), tra la voglia di ricordare e quella di stendere sopra tutto il recente passato non un velo ma una bella colata di cemento a chiudere definitivamente il vecchio capitolo e, forse, ricominciare dimenticando il prima, i genocidi, le morti, i fratelli coltelli, i parenti serpenti. Zagabria, Belgrado, Sarajevo: tre familiari-manichini da carillon, fratelli, marito e/o moglie (un lavoro faticoso e molto fisico per l’intensa Valentina Banci madre sommessa e vessata, picchiata e umiliata, l’ottimo e pirotecnico Mauro Malinverno , marito sciancato e zoppicante con le scarpe
giganti, ricordavano “Le nuvole” di Latella, chapliniano da tip tap, un po’
Fantozzi e un po’ Hitler, il puntuale Francesco Borchi figlio fragile che uccide in svariati modi i genitori) che, in questa desertificazione reale, tangibile ma anche dell’anima, in questa spoliazione selvaggia e turpe, nelle mosse, nel linguaggio, in questa desolazione e appiattimento dei valori dove niente più ha un vero senso
se non l’ossequio al più forte di volta in volta, omaggio alla sopravvivenza più che all’esistenza, vivono, adeguandosi all’habitat alla maniera degli animali, meglio bestie (tengono al guinzaglio una ragazza-cane, la sanguigna Elisa Langone con tanto di polso rotto), trovando le loro dinamiche, le loro gerarchie interne che entrano in cortocircuito elettrificandosi fino all’implosione. “Muoio come un Paese”, citando il greco Dimitriadis. Tutto il mondo (molto surreale e fumettistico; potrebbe in qualche modo ricordare “Noccioline” di Paravidino) per loro è lì dentro quello schifo (scena d’impatto immediato ideata da
Lorenzo Banci) fatto d’acciaio e tubi di
cemento, pozzanghere marce e una casetta d’amianto lasciata dagli operai
e oggetti miniaturizzati da bambini, tricicli e girelli, sedie e tavoli. Un grande gioco dell’oca dove a perdere sono tutti. I parenti sono gli Stati dell’Ex Jugoslavia, Croazia, Serbia e Bosnia, nella stessa melma, una terra di nessuno abbandonata (c’era una volta “ No man’s land”), con attitudine al predominio e all’arroganza. L’operaio è il filo conduttore contemporaneo e le sue schegge di scintille finali, come campanile a scoccare la rinascita,
il nuovo anno da festeggiare come stelle filanti di una decostruzione, segnano la fine di un’era, la chiusura di un capitolo doloroso e dolente che macera ancora sotto la cenere. Calma e tempesta, ormoni e punizioni isteriche, muscoli e sesso, o ancor meglio stupri, una grande tensione che si esplica in momenti di guerriglia, di caccia all’uomo con il sorriso esasperato, razzista e ossessivo sulle labbra. Da sottolineare il volumetto di sala, con il cd delle belle musiche di Arturo Annecchino, e le due mostre di fotografie di scena, di Ilaria Costanzo e
quella di Giovanni Santarelli.
Voto
8
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