Innanzitutto i colori. Il verde degli olivi e del prato nel bel mezzo della primavera, il
rosso sangue dei drappi, il nero dell’orchestra, il bianco del Racconto, alias
Marco
Zannoni. I colori, scelte non casuali, cromatismi carichi di simbologia, estetismi
significanti trasporto, aperture, mondi. Siamo nella Casa
Agamennone e le rovine del retro del Teatro Romano e la brezza che al
tramonto si alza, e i rintocchi di campane, aiutano a sentirsi dentro la grande ruota del Tempo, dentro quel Passato mitico e
mitologico, vicino e lontano, da respirare ad orecchie e bocche aperte. Si potrebbe dire uno spettacolo per le scuole. Vero e falso allo stesso tempo. Vero per la connotazione, forte, decisa e garbata, antibellica ed antiviolenta, falso per la forza, la potenza, la grinta,
il piglio, l’attenzione, l’arguzia degli interpreti, la caratura della
drammaturgia, il peso degli innesti, lo stile, ora aulico, adesso leggero, ora didascalico, a più riprese irriverente e deliziosamente avvolgente. Il rosso domina. Sfuggono al vento le tende, lasciate svolazzare come la vita versata per non versarne più altra. Rombano i tamburi di morte sulla collina. Camminiamo nella via crucis che gli uomini si sono costruiti con le loro mani. La
banda di allievi (ossimorica la visione di
capelli e frange stirate sugli occhi come Tokyo Hotel suonare la classica, ma
spaziano anche dalla balcanica ai Nirvana rivisitati) di Leonardo Brizzi
accompagna e sottolinea con precisione, il rumorista tratteggia con incisività, ma senza ingerenza, la grande mimica dei baffoni
staliniani di Zannoni, affabulatore dalla voce calda e roca, intrattenitore, imbonitore da piazza, sotto i quali si accapigliano, si rincorrono, nei vari accenti, inflessioni e dialetti, scorrono gli Dei, che giocano a scacchi con gli umani, e gli uomini, piccoli, miseri, mortali, pedine fallaci e penitenti di una contesa molto più alta delle loro capacità. Agamennone (catechizza come il Duce) è il simbolo del male, il riassunto della perfidia, la sinossi, il succo, il concentrato di come dal cattivo seme non possono nascere piante sane. E’ la parola, da trasmettere, tramandare, raccontare, è la diplomazia, la democrazia, l’ascolto, che salva l’Uomo all’autodistruzione, ci insegna Zannoni, è la condivisione (pare la scena finale della pellicola Into the wild) che ci porta ad essere migliori, a dividere, gioie e patimenti, ad essere più forti senza calpestare gli altri. Una grande lezione di vita che fa eco tra le pietre millenarie. Per gli adulti, d’oggi e di domani, perché “l’opera d’arte più alta è l’uomo”.
Voto
7 ½
|
 |
|