Blind Lunch
Ideazione Katia Giuliani
Lo spazio prescelto viene trasformato in ambiente accogliente e intimo con al centro un tavolo da pranzo, punto di incontro dove due persone, tra di loro sconosciute, pranzeranno insieme
A Contemporanea Festival, Prato, maggio 2010
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Le premesse c’erano tutte.
Poteva essere un escamotage interessante, un artificio suadente. Un po’
di pepe sulle nostre vite banali. Non mancava nessun ingrediente. C’era
stata l’attesa in una saletta stretta e rossa e claustrofobica,
c’era una persona mai vista prima dall’altra parte della stanza che
aspettava proprio me. Un incontro al buio. La luce c’era, però.
Una serata tra sconosciuti. Due persone che si incontrano senza aver preso un
appuntamento consapevolmente nello stesso luogo ed allo stesso orario. Ma ai
tempi di facebook, delle chat, è cosa da tutti i giorni, ad essere
minimamente smaliziati o curiosi. Chi non l’ha fatto scagli la prima
pietra. E’ la solitudine, malattia dei nostri tempi. Anche per sfuggire
al “produci, consuma, crepa”. Un po’ di sano svago cerebrale.
Senza impegno. Altri direbbero: una botta e via. Ti parlo, ti guardo, forse ti
tocco, e dopo non resti che un numero. Ma, non preoccupatevi, non era
l’intento di Katia Giuliani e
del suo Blind
lunch presentato a Contemporanea
Festival 2010. L’idea aveva le sue buone potenzialità. Poteva
esserci mistero, eros, adrenalina soffusa. In una vetrina del centro pratese,
due sconosciuti vengono messi davanti ad un antipasto ed hanno quaranta minuti
per conoscersi. Non basta una vita per conoscersi. Chi è timido, chi
estroverso, chi parla come un fiume in pieno preso dall’insicurezza, chi
ride, chi beve d’un fiato il bicchiere di vino incassato nel tavolo mignon,
delicato, funzionale che nei suoi quadratini bianchi e rossi ricorda un sano
picnic nel bosco. Chi è il lupo e chi Cappuccetto? Davanti alla vetrina,
come manichini viventi, i passanti: chi sgrana gli occhi, chi rimane confuso,
chi non se ne accorge neanche, i cinesi camminano a testa bassa, i latini hanno
lo sguardo duro da sfida. Non ci sono nasi e mani appoggiate, aloni di fiato,
che fa tanto Natale. Immaginavo un canovaccio di fondo, un testo non scritto
fatto di piccoli gesti, di accorgimenti. Ho pensato a quello che avrebbero
potuto dirci o farci o mostrarci per stabilire un contatto tra il me vittima
autocandidatasi ed il master-regista. Avevo pensato ad oggetti che potessero
entrare sulla scena per registrare le diverse reazioni, avevo pensato che
potesse esserci un piccolo black out all’interno della vetrina, che
qualcuno potesse entrare in cabina (stile il quartiere a luci rosse di
Amsterdam) per smuovere, surriscaldare, eccitare, elettrizzare
l’ambiente. Invece tutto è stato lasciato in mano ai due cenanti. E
quindi chiacchiere e distintivo: chi sei, chi sono, cosa fai, cosa faccio,
risate, perché qui. Alla fine scambio dei numeri di telefono. La
rivedrò? Non so. La mia partner occasionale si chiamava Valentina. Io la
chiamavo Veronica. Ma non è importante.
Voto
8
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