Hours...
Heathen
I
momenti di stanca capitano a tutti, anche ai migliori: non fa eccezione Sir David Bowie, che con l'ennesimo album
della sua lunga e brillante carriera non ha scritto una pagina indimenticabile
della medesima. E la cosa non è strettamente connessa all'età, nonostante le
primavere del Duca Bianco
ammontino ormai a cinquantacinque, dato che il recente Hours...
al contrario costituiva una pietra miliare della discografia bowiana. Non così
le dodici tracce di Heathen, decisamente squilibrate quanto ad
ispirazione, confezionate come un prodotto di una freddezza siderale: probabile
che Bowie, esattamente come accadeva in Hours...,
continui a sentire il richiamo delle proprie origini musicali, quando amava
presentarsi come l'alieno che cadde sulla Terra, purtroppo non siamo dalle
parti di Ziggy Stardust, la meta dista ancora qualche parsec. Viatico ideale di
Heathen
è l'apripista Sunday, marcato da una rigidità quasi liturgica, tanto che
all'arrivo della batteria a trenta secondi dalla fine si tira un respiro di sollievo.
Per fortuna David Bowie decide di
offrirci a parziale compenso un po' di sano rock con Cactus, una cover
dei Pixies ottimamente interpretata. E per fortuna il Duca Bianco continua
proponendoci a seguire una ballata della sue, la splendida Slip away,
malinconica e struggente, classica tanto da sembrare un pezzo d'annata. A ruota
arriva Slow burn, il primo singolo estratto dall'album, una bella rock
ballad che sembra estrapolata di sana pianta dal repertorio del Bowie anni Ottanta, con la special guest
Pete Townshend alla chitarra. Discreto ma non indimenticabile anche il rock
sporco ed oscuro della successiva Afraid. Altra cover, altro
gioiellino, e ben scelto, dato che I've been waiting for you non è
esattamente il brano più noto del repertorio di Neil Young: la chitarra di Dave
Grohl dei Foo Fighters nobilita l'esecuzione di Bowie. Non male neanche I would
be your slave, marcata da un'atmosfera pregnante e suggestiva. Lasciamo
perdere invece I took a trip on a Gemini spaceship, cover-tributo
pagata da Bowie ad un texano che alla fine dei Sessanta si faceva chiamare The
Legendary Stardust Cowboy, non entrato nella leggenda se non attraverso Ziggy
Stardust: Bowie
si diverte pure cantando sempre "spacecraft" nel brano invece dello
"spaceship" del titolo. E poi arriva l'ineffabile e celestiale ouverture
di 5.15 The angels have gone, che però non si sviluppa in un brano
all'altezza. La coda di Heathen però sembra concepita al fine di
rianimare l'ascoltatore non troppo convinto: Everyone says 'hi' e A
better future sono due canzoni di sapore pop che esalano leggerezza
ed armonia. La chiusa è affidata invece alla title track, densa,
intensa, quasi granitica. Ricapitolando: indubbiamente Heathen
lascia intravedere schizzi di creatività a corrente alternata ed una discreta verve
vocale, ma risulta nel complesso poco originale, quasi inevitabilmente stanco
e, purtroppo, incapace di lasciare troppe tracce di sé. Qualcosa, certamente.
Ma qualcosa è poco se il vostro nome anagrafico è David Robert Jones, in arte David Bowie.
David Bowie, Heathen [ISO/Columbia 2002]
Voto
6½
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