Sacre-stie
Scritto e diretto da Vincenzo Pirrotta
Con Filippo Luna, e Alessandro Romano, Marcello Montalto, scene Rosalba Corrao, costumi Marcella Costa
Visto al Festival “Primavera dei Teatri”, Castrovillari, Cosenza il 1 giugno 2011, Sala 14 del Protoconvento
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Le stie sono le gabbie dei polli.
Reti piccole, finissime, invalicabili, sottili come ragnatele che tranciano la
vista, la occludono senza celarla, la frantumano in piccoli esagoni da dove il
mondo appare squadrato, frammentato, difficilmente ricomponibile ed organico: a
compartimenti stagni. Preti e pedofilia. Con Sacre Stie vengono in mente
gli scandali di Boston, quelli recenti di Don Seppia a Sestri Ponente a Genova,
tutti quelli che la Chiesa
ha taciuto, insabbiato, azzerato. Niente a che vedere con Don Camillo. Più vicino,
forse, al “Nome della rosa”. In una preghiera materica e carnale il Monsignore
di rosso purpureo cardinalizio (Filippo Luna a tratti demoniaco e posseduto e
corposo e ascetico) inscena una danza coreografata di parole, ora auliche ed
antiche, quasi latinizzate, pompose e polverose, desuete e iconografate,
storicizzate, tra l’alto ed il terreno, tra Dio e le bassezze degli uomini. Il
suo segretario (Ratzinger e Padre Georg?) pende dalle sue labbra, si abbevera
della potenza del riverito, e reverendo, amico e protettore, al quale deve, di
riflesso, la posizione, non solo quella kamasutrica, ma sociale e civile.
Chiamala Sindrome di Stoccolma,
dove il perseguitato, il rapito, s’innamora dell’aguzzino, del boia. Una storia
d’abuso di potere camuffato con la volontà divina, la soddisfazione degli
istinti più retrogradi ed animaleschi nascosti da rituali e cerimoniali
rinvigorenti l’anima, il fango fatto passare per celestiale dono del cielo, il
desiderio per purificazione, la punizione traslata in giusto trapasso e
passaggio per assurgere ad un ulteriore stato di grazia. Le candele, l’incenso,
le grandi volte, il marmo freddo, le gigantesche navate che creano echi, gli
affreschi, le campane, il “Te Deus” d’organi o il “Magnificat” (qui dovrebbe
essere la voce idilliaca di Mina)
incutono timore, le cupole alte, le vetrate colorate da dove filtrano raggi di
luce densi, contribuiscono a mettere i fedeli in una situazione di inferiorità
presunta di fronte, non tanto al divino, ma quanto ai suoi sacerdoti, a chi
porta il nome della grande ditta ben stampata sulla tonaca. Niente a che vedere
con “La messa è finita”. Molti non vorrebbero sentire le parole “Habemus
Papam”. Il pastore e le pecorelle: scena biblica e pornografica. Il duello
dialettico è una confessione d’amore, complice e partecipata, un linguaggio
carnale e solido, pieno, fatto di metafore pungenti, di allusioni concrete, una
litania che diventa amplesso e godimento fisico, carne allo stato puro,
orgasmo, erotismo. Il testo di Pirrotta
vira però verso un moralismo scontato, che infatti incontra i favori del
pubblico da sempre bisognoso di consolatorie ammissioni e di demagogie ben
confezionate, quando sulla scena irrompe un ex allievo seminarista violentato
dal Cardinale, come altri ragazzini carne da macello come sottolinea la
didascalica immagine pittorica. Non è certo il rassicurante “Don Matteo”. Pistola
in pugno, segregazione del cattivo e processo da Brigate Rosse. Sembra di stare
ne “La morte e la fanciulla” o, peggio, in “Misery non deve
morire”. L’escamotage, la soluzione da guardie e ladri, da ispettore
di fiction, non ci è piaciuta. Così come il cartello finale, inutile, appeso al
cardinale, finalmente punito accecato come Edipo (respiro di soddisfazione
vendicatorio della platea che poi applaudirà liberata), che incita alla
soppressione fisica, alla pena di morte per chi commette reati sessuali nei
confronti di minori. D’accordo o meno, la democrazia sancisce altro. Non manca
la frase evangelica “Lasciate che i piccoli vengano a me”, come un attacco alle
ricchezze della Chiesa (fuori luogo, in questo caso), come la riesumazione della lettera di Ratzinger, prima del suo Papato, che invitava i parroci alla segretezza di eventuali scandali (fuori tema). Luci ed ombre sul Cristo sofferente (tutti noi) che non trova pace e non trova buoni maestri ai quali affidarsi.
Voto
7 -
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