Sogno di una notte di mezza estate
Di William Shakespeare
Versione di Giuseppe Marini, traduzione di Massimilano Palese, regia Giuseppe Di pasquale, scene Alessandro Chiti, costumi Helga H.Williams, disegno luci Roberto Loprencipe
Al Teatro Politeama di Poggibonsi 26 e 27 febbraio 2007
|
 |
Ricchissimo, goliardico e eccentrico. Il “Sogno” di Marini
colpisce per l’originalità dei costumi e delle musiche ma non osa con una riscrittura, ed una riduzione, che potevano essere
ampiamente e diversamente perlustrate. Poteva essere una ventata ed invece è
stato soltanto un soffio coloratissimo, ma solo un alito di brezza di giugno. Mezza
estate, appunto. Tre i momenti cangianti come velluto, ad intermittenza come fili
di lana intrecciati a maglia. Nascita, l’Adolescenza
sbarazzina e la Morte. Lo
spermatico bianco cadaverico, l’amplesso è comunque morte, della prima parte
con cilindri e musica da nozze. Il colorato mondo dei giochi, gaio e spensierato,
una continua Playstation ma non per questo esente da
sensi di colpa o meschinità, una parata dove si fondono non sessi ma sostanze e
succhi, acidi e liquidi. Un Rocky Horror Show,
osé macabro, una “Fabbrica di Cioccolato”, lasciva e grottesca. I commedianti, tra
Ridolini e
Gianni e
Pinotto, la realtà finta che entra nella
realtà concreta, luttuosi in nero severo e occhiaie, spenti come la loro arte, autoironici ma senza
consapevolezza, scolari da “Classe morta”,
alunni con fiocchi enormi al collo, più lucignoleschi
(le orecchie da asino) che luciferini, guanti bianchi
da cartoon. Ganci calati dall’alto dividono e sezionano in schemi, gabbie e
fendenti, la scena, come tagli di Fontana sulla tela. Appesi in fondo al
baratro specchi che riproducono facce deformate e volti ora animaleschi
e bui ora splendidi ed illuminati in stroboscopiche
visioni da disco o sottolineati da musica per matrimoni e funerali balcanica. Piramo è un fante di cuori o un prestito da
scacchiera, Tisbe un barboncino da esposizione canina, Elena emula della Littizzetto e schiaffeggiante, troppo forzata ed insistita
la trovata, la Regina
somiglia a Uma Thurman. Il cerone rimarca il limbo peccaminoso e la purezza
dimenticata. Nel bosco può, e deve, succedere di tutto, o almeno tutto quello
che nella città è vietato e punito. Il bosco è una parentesi dove il giusto e
lo sbagliato mutano l’uno dentro l’altro e dove è possibile seguire i propri
istinti. Il bosco è l’animale senza ragione. Nel bosco si incespica, si cade,
ci si impantana in voglie e desideri rinnegabili a posteriori, sirene attirano,
pruni e spine pungono facendo cadere nel silenzio sonnifero dell’incubo. L’oblò
gigantesco sul fondo della scena apre e chiude, come orifizio anale, a nuovi
ardori, libidini e brame. Puk, il malandrino, è la
loro rappresentazione. Un folletto però cupo e pensoso, scempio, sciancato, un
cupido pazzo e handicappato, malato, zoppo e claudicante, che si trascina
invece che volare, inquieto, delinquente ma appiedato, buffone di corte, ombra
maledetta in blu petrolio, airone con le ali intrise di nafta. Ed il fiore,
passato di bocca in bocca, la cascata di petali ingoiati come ostia, il foro
nel muro della commedia che diviene buco del deretano, il tuca tuca
danzereccio, giovanotti-modelli efebi da
pubblicità di Dolce e Gabbana, pedofili come Oberon,
e zoofile come Titania non fanno altro che
evidenziare ancora di più il lato da Gay Pride.
Voto
6 ½
|
 |
|