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Ascanio Celestini
La Pecora Nera
Cos’erano i manicomi, gli anni Sessanta e tanta fantasia
11 gennaio 2007 al Teatro Aurora di Scandicci

 




                     di Tommaso Chimenti


Auroradisera 2007, presentazione
Ascanio Celestini, La Pecora nera, 2007


Io sono morto quest’anno” è il refrain dell’ultimo spettacolo di Ascanio Celestini, scritto anche sul pannello dietro alla sua sediola, come in “Scemo di guerra”, che fa da scenografia povera accompagnata da un manichino. Cos’erano i manicomi, chi erano i matti, quelli naif cantati da De Gregori, chi erano i Dino Campana o le Alda Merini ma anche tanti semplici poveracci forse soltanto bisognosi d’affetto e non di scariche di watt. La trama è come sempre ingarbugliata e contorta. I nomi si fondono ma l’atmosfera della clausura degli istituti viene resa a meraviglia. Dolore e risate scaramantiche, esorcizzanti. Si ride molto, forse troppo per il tema proposto. I “favolosi anni ‘60” e “Sapore di mare” tornano come marea. Ma l’indagine di Celestini attraverso tre anni di laboratori in giro per l’Italia in luoghi vicini a strutture manicomiali prima della 180 del ’78, tra cui appunto Scandicci per la vicinanza con Castelpulci, diviene pretesto non per raccontare la verità, non per ricostruire le storie di cronaca ma per divagare, per giocare con la bravura e le parole, per creare una sorta di fiction romanzata su fatti realmente accaduti. Il prodotto finale è capace di trascinare ora in una valle di lacrime stizzite e vagamente borghesi, come di far sghignazzare anche i più acuti intellettuali. Ma non viene raccontata la storia del manicomio, anche perché sarebbe un’impresa impossibile ed indecente. Attraverso le testimonianze, soprattutto di medici e infermieri, Celestini costruisce il suo, e soltanto suo, spettacolo. Niente a che vedere con Marco Paolini che quando parla del Vajont o di Ustica non gigioneggia, non porta il pubblico ai limiti della fantasia, usando comunque sempre una sottile linea di ironia. Quando Elisabetta Salvatori descrive la strage di Sant’Anna di Stazzema in “Scalpiccii sotto i platani” non argomenta con proprie divagazioni ma si attiene alla Storia. Non possiamo chiamarlo “teatro civile”. Quindi Celestini costruisce pezzo dopo pezzo un ensemble stupendo e armonico strizzando comunque l’occhio alla patina, come assemblare un corpo umano con un braccio di Mario, la gamba di Tizio e la testa di Caio: ne risulterà un corpo umano ma non potrà camminare. Celestini impasta le informazioni raccolte, le rimette insieme, le mescola a dovere, le dosa riuscendo ad ottenere quel difficile mix di umorismo sociale, quella sorta di rinascita dei sentimenti attorno ad un unico filo conduttore che, anche quando sembra perduto nella nebbia del romanesco (“crescettero” o “bevere”) o in parentesi create ad arte, ritorna, riemerge, boccheggia, salvandoci. Potremmo anche aggiungere che Celestini è dichiaratamente schierato nella fronda degli anticlericali, a volte anche pesantemente: si sprecano le battute su suore, preti e Gesù Cristo, su Woytila che muore e risorge e spiega che dopo la morte non c’è niente. Molto “Disobbediente” e girotondino nella sua critica, ormai arcaica, vetusta e desueta, da “No Logo” della Klein, additando le classiche multinazionali Nutella, Nelsen piatti, Nesquik o il latte Parmalat, i biscotti Ringo ed il Mulino Bianco, come causa di tutti i mali moderni occidentali e non considerandoli come effetto. La più bella frase del testo: “Come è possibile stare dentro e non uscire fuori, come è possibile stare fuori e non sapere cosa succede dentro?”, si chiede Nicola il protagonista, anche in audio, della “Pecora nera”. Che Celestini voglia diventare il nuovo Beppe Grillo?

Voto 8 

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