Auroradisera 2007, presentazione
Ascanio Celestini, La Pecora nera, 2007
“Io sono morto quest’anno” è il refrain dell’ultimo spettacolo di Ascanio Celestini, scritto anche sul
pannello dietro alla sua sediola, come in “Scemo di
guerra”, che fa da scenografia povera accompagnata da un manichino. Cos’erano i manicomi, chi erano i matti, quelli naif cantati da
De Gregori, chi erano i Dino Campana o le Alda Merini ma anche tanti semplici
poveracci forse soltanto bisognosi d’affetto e non di scariche di watt. La
trama è come sempre ingarbugliata e contorta. I nomi si fondono
ma l’atmosfera della clausura degli istituti viene resa a meraviglia.
Dolore e risate scaramantiche, esorcizzanti. Si ride molto, forse troppo per il
tema proposto. I “favolosi anni ‘60” e “Sapore di mare” tornano come marea. Ma l’indagine di Celestini attraverso tre anni di laboratori
in giro per l’Italia in luoghi vicini a strutture manicomiali prima della 180
del ’78, tra cui appunto Scandicci per la vicinanza con Castelpulci,
diviene pretesto non per raccontare la verità, non per ricostruire le storie di
cronaca ma per divagare, per giocare con la bravura e le parole, per creare una
sorta di fiction romanzata su fatti realmente accaduti. Il prodotto finale è
capace di trascinare ora in una valle di lacrime stizzite e vagamente borghesi,
come di far sghignazzare anche i più acuti intellettuali. Ma non viene raccontata la storia del manicomio, anche perché
sarebbe un’impresa impossibile ed indecente. Attraverso le testimonianze,
soprattutto di medici e infermieri, Celestini costruisce il suo, e soltanto suo, spettacolo. Niente a che
vedere con Marco Paolini che quando parla del Vajont
o di Ustica non gigioneggia,
non porta il pubblico ai limiti della fantasia, usando comunque sempre una
sottile linea di ironia. Quando Elisabetta Salvatori
descrive la strage di Sant’Anna di Stazzema in “Scalpiccii sotto i platani” non argomenta
con proprie divagazioni ma si attiene alla Storia. Non possiamo chiamarlo
“teatro civile”. Quindi Celestini costruisce pezzo dopo pezzo un ensemble stupendo
e armonico strizzando comunque l’occhio alla patina,
come assemblare un corpo umano con un braccio di Mario, la gamba di Tizio e la
testa di Caio: ne risulterà un corpo umano ma non potrà camminare. Celestini
impasta le informazioni raccolte, le rimette insieme, le mescola a dovere, le
dosa riuscendo ad ottenere quel difficile mix di umorismo
sociale, quella sorta di rinascita dei sentimenti attorno ad un unico filo
conduttore che, anche quando sembra perduto nella nebbia del romanesco (“crescettero” o “bevere”) o in
parentesi create ad arte, ritorna, riemerge, boccheggia, salvandoci. Potremmo
anche aggiungere che Celestini è dichiaratamente schierato nella fronda degli
anticlericali, a volte anche pesantemente: si sprecano le battute su suore,
preti e Gesù Cristo, su Woytila che muore e risorge e
spiega che dopo la morte non c’è niente. Molto “Disobbediente”
e girotondino nella sua critica, ormai arcaica, vetusta e desueta, da “No Logo” della
Klein, additando le classiche multinazionali Nutella, Nelsen piatti, Nesquik o il latte
Parmalat, i biscotti Ringo
ed il Mulino Bianco, come causa di tutti i mali moderni occidentali e non
considerandoli come effetto. La più bella frase del testo: “Come è possibile stare dentro e non uscire fuori, come è
possibile stare fuori e non sapere cosa succede dentro?”, si chiede Nicola il
protagonista, anche in audio, della “Pecora nera”. Che Celestini voglia diventare il nuovo Beppe Grillo?
Voto
8