L’insostenibile pesantezza dell’esistere.
Un notturno al diabolico, un inno al mefistofelico contro le bassezze dell’esistenza, finita, squallida, fallace, umana, percossa da ruvidi sentimenti e passioni a breve termine.
Sale dalla platea il monologhista Graziano Piazza nella sua barba sale e pepe alla Fidel, in un prologo degno di Gassmann.
La sua voce rimbomba, risuona, eco di un funambolo della parola, bestemmia preghiere, maledicendo la vita.
Noir e buio, tetro teatro: cinque minuti di suspense da “Fantasma dell’Opera”.
Il vento gelido anima le poltrone del Metastasio, prima del vortice e turbine e scintille di poesia e versi, accompagnato da un violino zigano che conduce in atmosfere atroci e vampiriche, un piano che porta per mano in arie popolate da mostri tristi ed essenze divine drammatiche, di streghe e pozioni, maghi ed intrugli, formule magiche.
Nessuna fiamma, né Inferno, né Dante.
Il teatro pratese per l’occasione è aperto, divelto, le quinte fanno da scena, le scale interne come fabbrica, le corde e le funi, i tralicci, cappi e lacci da officina, ferro e acciaio, tubi metallici, immensa cavità, fogna, grotta e cunicolo, architettura futurista, tunnel verso altre vite, passaggio obbligato dalla terrenità delle cose all’assolutezza della verità.
Unico rilevante oggetto- totem una pila di libri, una fortezza inespugnabile di parole, una torre inconoscibile di sillabe, un faro inattaccabile per la conoscenza mai sazia, alto una decina di metri, piramide di volumi, Everest d’inchiostro, montagna di scritti impossibile da scalare, Torre di Babele offensiva, grattacielo frastagliato per graffiare le dissertazioni filosofiche, pira infarcita di aggettivi, catasta di avverbi, vulcano pronto ad esplodere.
Immensa è la sapienza, piccolo, microbico, minuscolo è l’uomo al suo cospetto mangiato nell’ombra in chiaro scuro della muraglia cinese del già detto, del già pensato.
Il sapere rende ancora più scettici ed increduli, chi conosce sa di non sapere, gocce di cultura nell’infinito oceano dell’umana comprensione, nell’infelicità e nell’impotenza la scelta è l’inebetito “Fahrenheit 451” o l’invocazione del divino malvagio, caduto, dubbioso, iracondo.
L’uomo ad immagine e somiglianza di Lucifero, il dio terreno.
Piazza, sdoppiandosi schizofreneticamente tra l’essere e l’altissimo, evoca la parte buia del sé per ricondursi alla ragione della luce, all’uscita, alla soluzione ultima per dipanare la matassa del Dubbio: la valanga di parole crea un vortice insaziabile, una frattura scomposta, slavina di immagini a caduta libera dove perdersi è un po’ come trovarsi.
Trovano posto sulla scena un Santo Graal ed un testo amletico, tra la religione delle campane di bronzo silenti e calmierate, tra l’arte dei pianoforti sordi e neri e zittiti, tra la cultura dei libri, nel sogno d’incubo l’ossimoro umano che vive in Faust
, contraddizioni in termini sospeso tra il dovere e la costrizione del vivere e l’impossibilità di altre alternative.
Il bene ed il male gli dirompono dentro, si dividono il naufrago, animano la follia repressa, catalizzano gli eccessi: “L’uomo è un microcosmo di pazzia”, servo depresso, genuflesso e schiavo delle sue domande, dello scorrere del tempo, della sabbia della clessidra o di quella di spiaggia aggredita dall’onda dell’eternità.
Dino Campana
? Alda Merini?
Tutti Faust? Liberi tutti?
Peccato che ogni uomo sia contemporaneamente due uomini, solo che il primo è sveglio nell’oscurità ed il secondo dorme nella luce.
La salvezza è la morte, come diceva Jim Morrison
“Nessuno uscirà vivo di qui”.
Teatro Metastasio 26-27-28 maggio 2004
Regia e scene: Claudio Parmiggiani
Luci: Roberto Innocenti
Con Graziano Piazza (Faust), Cinzia Sbrana (voce femminile)
Giorgia Tomassi (piano), Geza Hosszu- Legocky (violino) - Traduzione: Franco Fortini
Voto
8+
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