Scevra e lontana dal ruolo che la Storia e il femminismo,
soprattutto dopo la riscoperta del secondo Novecento da parte del movimento
americano, Anna Meacci,
con il suo solito e consolidato slang toscano sempre in bilico tra il serio e
il faceto nell’antro che si è costruita di denuncia
sociale (da “Fiabole” a “Stupiti e banditi”, “Romanina” e “Sogni dismessi”)
affrancandosi da quella comicità dalla quale comunque nasce, ci rende
un’immagine di Artemisia
Gentileschi tutt’altro che mitica o epica ma anzi, ritagliandole un abito
di un’umanità sofferta e sofferente ma per niente martire o vittima. Anna è
pasionaria e si getta nelle parole della vita e del processo per stupro ai
danni della pittrice del Seicento, la prima alla quale
saranno commissionati e pagati i quadri. Ha un vestito colorato ed i capelli raccolti come una flamenchista
che ricordano le donne fiere e coraggiose del Sud del mondo, le madri
argentine. E’ scalza in omaggio alla ribellione di Artemisia.
Personaggio sconosciuto e a tratti scomodo. Con un ampio salto temporale la si potrebbe paragonare per ricerca della libertà
personale a Sibilla
Aleramo. Entrambe hanno preceduto i tempi, e per questo ne hanno pagato le
conseguenze, dure, carissime, ma hanno goduto di
quella libertà, conquistata a fatica e sulla propria pelle, che le ha rese non
solo donne ma persone degne di rispetto in un mondo, quello di allora e quello
odierno, maschile e maschilista. La donna doveva stare un passo indietro
all’uomo, vivere nella sua ombra, accettare senza discutere scelte altrui,
senza istruzione. Artemisia aveva il dono della pittura, suoi quadri sono
esposti agli Uffizi, un dono che l’ha portata a conoscere il suo aguzzino, ad essere torturata sotto processo, ma anche a vincerlo
contro il suo stupratore, il prospettivista Agostino Tassi, cosa
rara all’epoca quando gli imputati che si fronteggiavano e si accusavano erano
un uomo ed una donna. E’ stata forte e coraggiosa, ma non chiamatela eroina.
Era estrosa, amava la vita, non voleva essere inglobata in un sistema, voleva scegliere. E sceglierà anche gli uomini: si sposerà e
avrà cinque figli, uno fuori dal matrimonio, e due amanti focosi, uno spagnolo
e un inglese. Discorreva d’arte con Cosimo II de
Medici, di stelle con Galileo Galilei. Ha vissuto a Roma, Firenze, Genova,
Napoli, Venezia. Una donna, una femmina dalla sessualità piena, una leonessa
dalla vita avventurosa che non si limita al ruolo impostole di madre e
casalinga. Un’artista che in qualche modo esorcizzerà l’esperienza della
violenza subita dipingendo “Lucrezia”. Si può dire che è uno dei primi casi di
emancipazione femminile dopo Giovanna D’Arco. La Meacci scorre bene padroneggiando le
date e non mostra l’imbarazzo delle prime assolute. E’ una lectio magistralis
informale più che una piece, interattiva con volumi di
storia dell’arte che il pubblico del Teatro del Sale si passa sorpreso tra le
mani. E’ ancora in forma di studio, è una chiacchierata, ma
utile e funzionale alla conoscenza. Non si deve aver paura del teatro
pedagogico. Quasi si commuove citando le carte del processo, dove la
discriminazione è lampante e sostenuta da tesi e congetture che qualificavano e
certificavano anche i vari gradi di stupro, dal più lieve, come se ne esistesse
alcuno leggero e innocuo, al più grave (e qui
l’attrice ricorda la sentenza della Cassazione di qualche anno fa che si
pronunciò goffamente su una violenza carnale dove di mezzo c’erano i jeans). In
molti casi, i secoli sono passati senza apportare alcuna miglioria. La Meacci è bravissima, e si a corpo e parole e sentire, nel riuscire a far passare il
dolore e l’umiliazione, la sofferenza fisica e psicologica sociale, la condanna
morale, il giudizio dei benpensanti, ma anche l’esprit de finesse ma anche la joy de vivre di una donna che si è diventata tutte le donne
denunciando senza vergogna il suo persecutore.
Voto
7½
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