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Intervista
a Carlo Gatteschi a cura di Pietro Carfì (estratto)
In tredici anni di attività autoprodotta, autofinanziata e autorganizzata
Carlo Gatteschi e il suo Gezz Zero Grup sono stati paragonati al Prime
Time di Ornette Coleman, ai Material di Bill Laswell, al Miles Davis
elettrico, a Frank Zappa, a Steve Lacy e ad altri portenti della musica
novecentesca statunitense o del "giro" sperimentale europeo.
Ma per quanti paragoni, paralleli, paradigmi si possano scovare, il
flusso sonoro del Gezz Zero Grup rimane ineffabile, sempre in movimento,
in trasformazione, in rigenerazione... l'Indoeuropean Music Ensemble,
all'esordio ufficiale con la pubblicazione di Gandharva trova qui una
svolta progettuale, nelle intenzioni e nella concretizzazione.
Ikram Khan (sarangi), Deobrat Mishra (sitar), Hanif Khan (tabla), Alberto
Capelli (chitarra), Carlo Gatteschi (sassofoni) - coadiuvati episodicamente
da altri compagni - hanno preso le mosse da ciò che poteva unirli,
piuttosto che dividerli: la comune radice indoeuropea, l'alternarsi
di composizione ed improvvisazione, l'equilibrio tra emozione e riflessione.
I raga sono stati arrangiati dagli italiani, i brani degli italiani
li hanno arrangiati gli indiani: ognuno ha parlato il linguaggio del
proprio strumento ed è stato latore di culture e tensioni diverse.
Piuttosto che una fusione a freddo, un'alchimia, Gandharva ci sembra
un'incontro ragionato e tuttavia spontaneo, quasi naturale.
Un originale episodio di musica world, o come la volete chiamare...
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Che bisogno c'era dell'Indoeuropean Music Ensemble?
"Non c'era, ovviamente, nessun "bisogno" dell'Indoeuropean:
i progetti di tanti musicisti non nascono per bisogno, ma per piacere,
il piacere di suonarli, di fare qualcosa di cui essere orgogliosi, contenti
di se stessi, coerenti con i propri gusti, ti direi anche per ascoltare
dalla voce del proprio gruppo quella musica che ancora non esiste ma
che vorresti ascoltare, che so, per radio o andando per caso in un locale.
Sono i commercianti che "hanno il bisogno" di vendere un determinato
prodotto, perchè prevedono le intenzioni dei possibili acquirenti.
Ho suonato con musicisti italiani sia di provenienza rock che jazz,
popolare, di liscio e di musica sinfonica - come succede direi anche
per caso: qualcuno ti chiama, amici, conoscenti. Poi con europei, con
sudamericani in Italia e in Sudamerica, con africani, poi con americani
come James White (ora si fa chiamare Chanche) and the Contorsions, il
violoncellista Tristan Honsinger, il poeta John Giorno.
All'università ho studiato musica e antropologia culturale ed
ero da anni interessato alla cultura, all'arte ed alla filosofia indiana.
Desideravo da tempo approfondire la mia superficiale conoscenza del
mondo indiano: vivere dall'interno il mondo della cultura indiana, pensare
di poter parlare di filosofia, di arte, di musica con bramini, con grandi
maestri, con grandi musicisti è stato un sogno, più che
un desiderio, come per un ladro entrare a Fort Knox, un azzardo, un
grande onore che sai che la vita ha destinato a pochi e che poi è
toccato proprio a me.
Se per molte mie esperienze posso dire che ci siano state delle circostanze
casuali a determinarle in gran parte, allora ti dico che i musicisti
indiani me li sono cercati e che su questo progetto ho fantasticato,
pensato, e poi progettato a lungo prima di incontrare i musicisti e
suonare con loro.
Con Alberto Capelli, mio compagno chitarrista anche nel gruppo elettrico,
il Gezz Zero Grup, durante gli spostamenti in furgone nelle tournée
(un vecchio Volkswagen con quattro posti letto) abbiamo letto diversi
libri di filosofia, tra i quali anche molte parti dei Veda, i libri
sacri e fondamentali dell'induismo.
Insieme avevamo progettato di andare in India col furgone attrezzato
da studio mobile di registrazione, in modo da incontrare, suonare e
registrare con musicisti greci, turchi, persiani, pachistani e, dulcis
in fundo, indiani; un percorso alla Alessandro Magno o alla Marco Polo,
ma con gli strumenti musicali, alla ricerca di un "Linguaggio Universale"
della nostra vecchia cultura indoeuropea di prima dell'avvento dell'Islam,
che ha un po' fatto da tappo per il continuum dello scambio indoeuropeo.
Poi, sommersi dalle difficoltà organizzative ed economiche, io
ho preso l'aereo e il Capelli è rimasto a casa.
Quindi ho cercato musicisti indiani disposti a suonare con me, in un
progetto comune che ipotizzasse l'esistenza di una cultura, una affinità
indoeuropea, un progetto che si avvantaggiasse di grande fiducia e pazienza
da parte degli stessi musicisti, impegnati a comporre e ad arrangiare
insieme la musica.
Piano piano la cosa è partita, in quartetto con contrabbasso,
tabla, sax e sitar, fino a contare stabilmente su sitar, sarangi, tabla
più gli italiani, a partire dalla chitarra arrivando poi al quartetto
elettrico del Gezz Zero Grup, col basso e la batteria.
Ma è il contenuto del progetto, che nella musica è la
cosa più importante, che mi sta particolarmente a cuore. Una
cosa che mi aveva affascinato subito, oltre naturalmente alla forma
musicale ed ai suoni, era proprio il dover riferire ogni raga (il "brano"
della musica classica indiana) ad argomenti specifici, i nove sentimenti
(amore, gioia, disgusto, rabbia, meraviglia, tristezza, pace, devozione,
malinconia), oppure a manifestazioni della natura (notte, pioggia, tramonto,
eccetera). In Occidente, nel secolo che è appena trascorso, si
è giunti in tutte le arti all'astratto, al distacco progressivo
da un reale sempre più fonte di paure e di incertezze piuttosto
che di ispirazione. I conflitti disastrosi del Novecento avevano portato
la gente e gli artisti a nascondere i sentimenti, ma appena prima di
queste catastrofi Beethoven aveva scritto la Sonata per la Luna, l'Appassionata,
l'Eroica, Mahler compone musica riferendosi ai sentimenti che suscita
l'idea delle morti di bambini neonati, Schoenberg descriveva i sentimenti
di due amanti quando lei dice a lui che aspetta un figlio da un altro:
i compositori occidentali avevano verso la natura un atteggiamento assai
simile a quello indiano verso l'arte, l'uomo e la natura.
Sentendo poi che il pane tondo in India si chiama "roti" e
che camicia si dice "camich" e soprattutto andando quattro
volte in India e sentendola vicina nel profondo, mi sono convinto che
le nostre radici culturali affondino dal Mediterraneo all'Oriente e
che questo nostro status di colonia culturale, prima tedesca e poi americana,
non possa impressionarci più di tanto.
Dunque, come vedi, sono proprio convinto che esistano nessi profondi
tra queste culture e mi affascina il progetto dell'I.M.E. perchè
non è solo un accostamento formale di un sax e un sitar.
Parliamo di cose che ci premono molto, con rappresentanti di una cultura
che ha studiato l'uomo profondamente e in modo diverso dal nostro. Per
quel che riguarda il modo di suonare, essendo noi italiani per lo più
jazzisti o comunque improvvisatori, ci siamo trovati in perfetta sintonia
con grandi improvvisatori come loro.
Non leggono la musica e io non ho mai gradito gli spartiti sul palco,
bisogna pensare, progettare, parlare, suonare e ascoltare o ascoltare
e suonare. Andiamo d'accordissimo!...."
N° 44 WORLD MUSIC, settembre 2000
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