Paolo Pelosini
Sculture
Essenze volatili che con una leggera brezza si dissolveranno, anatomie a cielo aperto, strazianti squarci e tagli da bisturi e chirurgo
Al Salone Brunelleschi di Palagio di Parte Guelfa, Piazzetta di Parte Guelfa – Firenze, da sabato 1 al 10 settembre 2007
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Sembrano mostri di un’era
geologica millenaria passata e dimenticata, essenze volatili
che con una leggera brezza si dissolveranno, anatomie a cielo aperto,
strazianti squarci e tagli da bisturi e chirurgo. Le opere di Paolo Pelosini
(fino al 10 settembre 2007 ad ingresso gratuito al Palagio
di parte Guelfa) provengono da materiali di recupero e di scarto. Eufemismo
per non dire discariche, vicoli, cassonetti e rifiuti. E
come rifiuti sono trattati, ma con amore e delicatezza, le figure impresse nel
metallo arrugginito e nella materia ancora viva, paradossalmente, dopo la morte
raffigurata, dopo la morte dell’elemento ferreo non più usato né adoperato per
il suo uso originale e primario. Il maiale appeso, sempre di latta
aggrovigliata, al gancio ha il volto-muso sereno. Non sembra di stare in
macelleria ma in un obitorio anche se i tagli inflittigli dal tempo e dalla
vita hanno un che di sadico e tragico allo stesso
tempo. Sembra essere passato sul suo corpo di suino umanizzato una folata di trance e rito, un sacrificio da mostrare a testa in giù e
raccogliere un sangue che qui è invisibile. E Paolo
Pelosini, che nella vita si divide tra la Versilia e New York, ha
la mano ferma delle Apuane e l’elettricità della Grande Mela con le sue
nebulose, i suoi richiami in bianco e nero, le viscere dell’underground che
emergono ancora più violente e per niente pacificate. Il gallo, anch’esso
appeso, ha stizze e richiami di ruggine come vello maculato,
lo squalo sa di un Pinocchio retrò e metallico, da acquario, da pontile
in mezzo all’Atlantico. Mai Pacifico. Ha lo stomaco squartato e rende al mare, alla vita, quasi partorendoli, altri
pesci prima ingoiati. Ma qui tutto resta, tutto ha una
traccia ben visibile come orma sulla duna vergine. Straziante
il corpo di un figlio bambino di lamiera con inizi di decomposizione che
ricordano le mummie egizie chiuso in un sarcofago che in realtà è un
contenitore per proiettili e bombe. Il richiamo politicizzato al Medio
Oriente, alle mine antiuomo a forma di farfalla o pappagalli verdi, citando
Gino Strada, è forte e lampante. La chicca è il cavallo addormentato morente o
moribondo che ha l’anima di Sergio
Leone e del deserto
del Chihuahua, solo, desolato e ammutolito strappato ad un bidone e
scrostato, ripulito e scarnificato con le costole che affiorano come i leggeri
segni di superficie del fusto. Cade a pezzi, decrepito,
invecchiato come un animale, come un’idea. Come un uomo ed il suo feticcio
vitale di corsa infinita.
Voto
7 +
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